31 luglio 2022

NEW INDIA DESIGNSCAPE

[Archivio]

La mostra New India Designscape era stata allestita dal 14 dicembre 2012 al 24 febbraio 2013 presso la Triennale Milano. Riporto di seguito il comunicato stampa: 

'In mostra una inedita selezione dei più interessanti lavori dei designer indiani contemporanei, a cura di Simona Romano con la collaborazione di Avnish Mehta. New India Designscape presenta la complessità di un contesto, di un paesaggio, in cui prevalgono le interrelazioni e le continue interrogazioni sul progetto più che la fissità di identità nazionali e di figure in sé concluse, come i maestri delle generazioni passate. I giovani designer selezionati, permeati dalla matrice culturale dell’India ma fortemente contaminati da altri contesti, per lo più occidentali, attraverso i loro contributi progettuali propongono progetti che vivono in un delicato equilibrio tra l’innovazione e la tradizione.


Spesso sono proprio i contenuti mitici a essere riproposti, con una certa ironia, in oggetti comuni (per esempio in Mr Prick di Sandip Paul, nei Lotus pieces di Sahil and Sartak, nella Cheerharan Toilet Paper di Divya Thakur, in Cut.ok.Paste di Mira Malhotra, nella Hanuman T-shirt di Lokesh Karekar, negli abiti di Manish Arora, nelle Varanasi Cows di Kangan Arora) a dimostrazione che l’antico e il contemporaneo, il sacro e il profano, si mischiano in un tutto non immediatamente decodificabile (per i non indiani) portando nel quotidiano contenuti profondi con risvolti, nell’era globale, quasi terapeutici.
Altri oggetti partono dalla cultura materiale autoctona (ardua sfida dal momento che gli oggetti più comuni e tradizionali dell’India hanno un coefficiente di modernità, funzionalità, ed estetica difficilmente superabile) o la reinterpretano innovando alcune tipologie (come nella Disposable Mug di Paul) o utilizzando alcuni oggetti comuni come dei semilavorati per crearne altri (la Choori Lamp di Sahil and Sartak, i lettering di Hanif Kureshi, i gioielli di Shilpa Chevan).


Negli oggetti in mostra vengono riproposti anche alcuni immaginari di un’India meno mediatica, che espone a un confronto tra diverse realtà sociali, a cui si guarda con un’accettazione, non rassegnazione, che prende forma, più o meno inconscia, in altri oggetti quasi surreali come il Bori Cycle Throne di Gunjan Gupta; e tra questi confronti non poteva mancare una riattualizzazione post-coloniale del rapporto India-Inghilterra (il lettering Englishes di Geetika Alok).
Le esigenze concrete della vita dei villaggi di cui è fatta la maggior parte dell’India non urbana ispira invece il cosiddetto barefoot design in cui una lavatrice a pedali (Reyma Josè) e la struttura in bamboo per il carico e il trasporto di pesi sulle spalle (Vikram Dinubhai Panchal), fanno la differenza in termini di qualità di una vita di per sé difficile. Ma il design si pone spesso in dialogo anche con le raffinatissime tecniche artigianali rurali per ridisegnare gli oggetti tradizionali (gli abiti di Aneeth Arora, il furniture design in bamboo di Sandeep Sangaru e Andrea Noronha, i progetti di Garima Aggarwal Roy, il Flying bird e le Singing Leaves di Rajiv Jassal, i Natural dishes di Sanders e Kandula, la Bambike, bicicletta in bamboo di Vijay Sharma) e incentivare le piccole economie locali (i Bamboo Cubes di M.P. Ranjan, i Chitku works di Priyanka Tolia).

Bori Cycle Throne - Gunjan Gupta

L’India urbana invece, quella tecnologica, che si caratterizza più per lo sviluppo di processi e semilavorati che per il design, quasi trova un alter ego artistico nei lavori di Padmaja Krishnan (Excess mobile e Wood Pc) e di Ranjit Makkuni (progettista di sofisticate installazioni interattive che ci connettono con il sacro).
L’India, anche nel design, si rivela così, difficilmente organizzabile, classificabile, sistematizzabile, decifrabile. Convivono progettisti che vi rimangono con l’intento di cambiare le cose (in mancanza delle aziende sono molte le produzioni self-made in piccole serie), che vi tornano dopo lunghi periodi di formazione e attività all’estero, o che lavorano lontano dalla grande madre senza mai dimenticarla nei loro progetti. Un paesaggio, il designscape indiano, ricco, che attraverso le diverse articolazioni del dialogo tra modernità e tradizione, potrà produrre nuovi contenuti per una società globale sempre in continuo divenire, e, proprio per questo, sempre alla ricerca delle proprie ancestrali radici'. 



Vi segnalo l'intervista concessa da Simona Romano a Elena Sommariva, pubblicata da Domus il 15 febbraio 2013. New India Designscape:

'Sono molti i progetti in mostra sviluppati con le associazioni?
Simona Romano: La maggior parte dei prodotti raccolti qui è frutto di piccole autoproduzioni avviate dai designer stessi. In qualche caso, come lo sgabello-cubo di bambù di M.P. Ranjan, che combina lavorazione a macchina e dettagli artigianali di alta qualità, c'è anche l'idea di creare lavoro e dare vita a piccole economie. Le università stesse offrono corsi di barefoot design, che permettono agli studenti di trascorrere un periodo di tempo nei villaggi. Esiste la National Innovation Foundation, un osservatorio permanente sul territorio per individuare le invenzioni autoctone più interessanti. Come le pinze per salire sulle palme e raccogliere le noci di cocco. Gli oggetti sono molto eterogenei: a unirli è la relazione tra contemporaneità e tradizioni, che comprende non soltanto l'aspetto artigianale, ma anche quello simbolico. Dal Mahabaratha, stampato (con una certa ironia) sul rotolo di carta igienica Cheerarhan ai personaggi della mitologia indiana riproposti sui giocattoli di carta per bambini Cut.ok.Paste, fino all'immaginario dei film di Bollywood usato da Manish Arora per i suoi abiti.

Bambike - Vijay Sharma

Per il design indiano potrebbe essere quindi un buono sbocco lavorare sulle piccole economie locali?
Penso di sì. L'India non ha bisogno di passare attraverso il nostro sistema produttivo, perché ovviamente ci si confronta con disponibilità di mano d'opera immense e una grande qualità nella produzione artigianale. Credo che in questa forma organizzativa, fatta di piccole produzioni e di un processo di recupero delle tradizioni artigianali, ci sia la strada giusta per loro. E poi, forse, anche la nostra: l'India non ci offre soltanto la sua visione, ma anche le chiavi per rispondere ai problemi attuali. In questa forte relazione tra tradizioni e innovazione - che è il filo conduttore di tutta la mostra - ci può essere una fonte d'ispirazione anche per noi, ovviamente seguendo modalità diverse.

Cut.ok.Paste - Mira Malhotra

Il design indiano guarda anche all'Occidente. Come?
Penso che oggi non abbia alcun senso parlare di cultura indiana, occidentale o asiatica: siamo in un momento in cui la cultura è davvero frammentata. È molto difficile trovare identità e compattezze nei tanti flussi globali. La cultura si rinnova e modifica continuamente, quello che invece può servire al designer come strumento di lavoro sono le tradizioni. È sempre più difficile identificarsi con una cultura precisa. Per chi progetta, è un parametro troppo instabile. Però quello che può fare chi progetta è pensare concretamente alle tradizioni, fare emergere elementi dal passato, attualizzarli e riproporli nella contemporaneità. Tanto è vero che gli oggetti che hanno forti relazioni con la tradizione sono anche un po' oggetti transazionali, sono una medicina, un buon accompagnamento, per via dell'uso di tecniche tradizionali o perché contengono dei messaggi simbolici. Ci sono influenze occidentali, ma come parte di un processo biunivoco. Lo stesso Movimento Moderno è nato su ispirazione del Giappone. Non si riesce davvero a dire di "chi è cosa", ma di certo non si tratta di oggetti apolidi, proprio per via di questa riesumazione di diverse tradizioni e della valorizzazione delle culture locali.


L'apporto tecnologico è un aspetto che non avete considerato. Perché?
Quello tecnologico è un capitolo a sé. È un aspetto che viaggia in parallelo al progetto di design. L'India fornisce servizi come call center, semi-lavorati e software, e primeggia nella tecnologia "soft". Molto interessanti sono le due sculture di Ranjit Makkuni, un designer che ha lavorato per quasi vent'anni allo Xerox PARC creando interfacce multimediali e sistemi per l'apprendimento. Nel suo laboratorio, in India, mescola tradizioni e tecnologia. La scultura in legno Re-visualizing a green self, per esempio, racchiude al suo interno sofisticati dispositivi tattili e sonori. Nelle sue mostre, Makkuni ripropone riti e miti attraverso installazioni interattive per fare avvicinare la gente alla tecnologia in modo friendly. In India, c'è una fortissima modernità che s'incastra e mescola con qualcosa di atavico, a creare un incredibile melting pot. Chi è indiano, probabilmente, se ne accorge meno.


Anche l'allestimento è un vero progetto nel progetto.
Kavita Singh Kale si è ispirata alla sua scultura Fragile e al concetto di città in movimento. I fili servono a dare un'idea di equilibrio instabile. È un progetto di grande raffinatezza. Come spiega Avnish: "Molte volte, l'idea di fragilità è collegata a quella di sostenibilità, non bisognerebbe creare qualcosa che è difficile da distruggere. Se gli oggetti sono semplici, vengono consumati e distrutti automaticamente. Questo, secondo me, è uno dei campi che i designer dovrebbero esplorare: materiali sostenibili che, nell'arco di dieci anni, si consumano e si distruggono".'


Elephant, 2010 - Sangaru Sandeep


30 luglio 2022

KOLKATA EXTREME | DOWN AND DIRTY IN KOLKATA

Cosmic Sex

[Archivio]

Si parla troppo poco di cinema indipendente indiano. Vi ripropongo un testo del 2012 dedicato ai cineasti più trasgressivi della scena bengali. Kolkata Extreme | Down and dirty in Kolkata, Nandini Ramnath, Mint, 12 ottobre 2012:

'There wasn’t an empty seat at the premiere of Amitabh Chakraborty’s Bengali movie Cosmic Sex at the Osian’s Cinefan film festival in Delhi in August. Delegates crammed into the 1,865-seater Auditorium 1 at the Siri Fort complex, seduced by the promise of uncensored sexual intercourse in an Indian film (they weren’t disappointed). The presence of lead actor Rii, easily one of the most uninhibited women in Indian cinema, further electrified the crowd. The diminutive beauty, who hands out lessons in desire and sexual fulfilment to a truth-seeking young man, gamely took on questions after the screening about whether she was “as erotic as her character" and what she thought of Sigmund Freud. A few questions were about the movie’s exploration of the idea of achieving spiritual equilibrium through sex. But people mostly wanted to take a closer look at the actor who is the face of an exciting and promising strain of independent film-making. 
It’s experimental, transgressive, idiosyncratic and phantasmagorical and it is emerging out of the most relaxed among the metropolises - Kolkata. The West Bengal capital has a long-established tradition of radical and independent-spirited film-makers, from Ritwik Ghatak and Satyajit Ray to Subrata Sen and Suman Mukhopadhyay. So it is only natural that the city is producing several fascinating experiments in documentaries and features. (...)
Cosmic Sex includes ideas previously explored by 53-year-old Chakraborty in his 2006 documentary Bishar Blues, about Bengal’s Muslim fakir tradition. A young man named Kripa encounters a prostitute, a eunuch and, most crucially, a female ascetic named Sadhana on his journey of sexual self-discovery. Kripa’s experiences unfold as a reverie amid a mythic landscape that is identifiably the Bengal of wandering ascetics and miracle workers. “Cults like the fakirs and the Bauls feel that sexual energy is the most powerful force that flows outwards all the time, because of which there are manifestations of happiness, unhappiness and death," Chakraborty says at his home in Kolkata. “The only way to get out of this is to reverse the sexual energy. You have to go back to the unchanging energy source." Cosmic Sex is only Chakraborty’s second movie in 23 years after his experimental debut Kaal Abhirati. (...)

Bishar Blues

Q’s musical Tasher Desh (The Land of Cards). (...) Based on Rabindranath Tagore’s operatic critique of social rigidity, which was inspired by Lewis Carroll and written in 1933, Q’s fantasy adventure, about a prince who strains at his royal leash, will be premiered at the International Rome Film Festival in November and will be released in India in 2013. Q says Tasher Desh has been in the making ever since he decided to become a film-maker. “Tasher Desh is an immensely popular production that is usually treated as a kids’ play," he says. “In the neighbourhood in which I grew up, the guy who could sing would get the central character, the prince. I was the prince for the neighbourhood, but then I got demoted when the play was performed at school. I was horribly disappointed and vowed that this would be avenged."
A trailer reveals that like in Gandu, Q is jettisoning conventional storytelling modes in favour of an audio-visual head rush through a theatrical acting style, hand-held, highly mobile camerawork and rapid-fire editing. The film has been shot in West Bengal and Sri Lanka. (...) “I didn’t care for the story - it is an experience, with its songs and its exotica," Q says. “I believe in the present moment, not in stories. Tasher Desh is structured like a fairy tale, it’s metaphysical and metaphorical." Tasher Desh has been produced by Q’s outfit Overdose, Kolkata-based recording studio Dream Digital, Belgian company Entre Chien Et Loup, the National Film Development Corporation and Anurag Kashyap Films. The movie brings Q a few steps out of the Kolkata underground and into the mainstream - sort of. “I don’t think Tasher Desh will bring us into a mainstream that means palatable and marketable," Q says. “I am trying to counter the fact that we don’t have channels of distribution for alternate content."
Gandu, made in 2010, was never meant to be released. The experiment in extreme cinema that more people have heard of than seen was a break-out for Q and a breakaway from the realism and restraint usually found in commercial film-making. The mostly black and white movie (...) follows an angst-ridden young man’s journey towards self-fulfilment through highly stylized camerawork, choppy editing and interludes of profane Bengali rap. The protagonist’s claustrophobia, stemming from his sterile surroundings and his sense of emasculation, literally explodes in a no-holds-barred colour sequence of sexual intercourse, which has earned the film eternal notoriety.

Tasher Desh

Q is an agent provocateur with a plan. He has been assiduously working towards creating an alternative system of finance and distribution with Overdose (its business cards promise “explosive Indian content"). He collaborates with a tightly knit group of like-minded souls, some of whom he has grown up with, in the production of “cheap and dirty pictures about sexual, social or political extreme content that otherwise can’t be made", on budgets of ₹ 25-30 lakh [1 lakh = 100.000], that will subsidize each other.
“Since a production house can’t operate on one production, our strategy is to go for two kinds of cinema," he says. “We can make films like Tasher Desh, which is nothing like Gandu but carries the same spirit. If that works out, we have a killer set-up - we can make cheap, extreme films that are not bound by distribution in India. (...) We can recoup the money internationally as well as keep up the fight of pushing the boundaries of viewership." The label Bangla Black has been set up expressly to launch regular attacks on the system. “These are all gambles, high-velocity risks, but they are not uncalculated," Q says. (...)
His partner in cinema and in life [is] Rii, officially Rituparna Sen. (...) When she met Q in 2003, she had spent two years modelling and acting in television. She thought his debut feature Tepantorer Mathe would give her a foothold in the movies. “I thought the film would make me a star, but I was heartbroken when I found it was not going to come out," she says. The two started seeing each other, and Rii got introduced to the film-makers who would turn out to be the leading lights of Kolkata Candid: Shyamal Karmakar, who edited Tepantorer Mathe, and Amitabh Chakraborty, who was making Bishar Blues. “I love films that are challenging and borderline and dangerous," Rii says. “I will do anything for these three film-makers - they are crazy and difficult, but I love their work. Lust is not their prime focus."


Karmakar, an editor who trained at the Film and Television Institute of India in Pune, is one of Q’s major inspirations. Karmakar’s documentary I Am the Very Beautiful, made in 2006, is a genre-defying exploration of the film-maker’s desire for a bar singer named Ranu Gayen. Karmakar makes no bones about his attraction to Gayen, who is attached to his friend. He asks her to sleep with him and films her semi-naked. Gayen is no shrinking violet either, and as director and subject come dangerously close, the documentary explores the nature of voyeurism and the difficulty of maintaining a pretence of objectivity or distance. Karmakar is in thrall of female sexuality, and unlike many other film-makers, he doesn’t pretend otherwise.
“My idea of sexuality was ruptured in Pune," says 48-year-old Karmakar at his office at the Satyajit Ray Film & Television Institute in Kolkata, where he heads the editing department. “I fell in love with women with different moralities and attitudes to morality." Some film-makers explore dreams, some nightmares, while others confront their sexual fantasies, he says. “I want to tell the truth," Karmakar says. “I am very scared to tell my stories, but telling them is important. There are very few places to screen your films in Kolkata," he observes. “But it helps to be under the radar. The less I am seen by people, the better for me."

Q

Perhaps there is no better place than Kolkata to unleash the private into the public. “If you look at what’s happening in Bengali cinema, it’s been brewing for over a decade and a half," says Moinak Biswas, professor at Jadavpur University’s film studies department. “Things have come to a head - there is an all-time record of production in Bengali cinema. Soon, most of these films will find it difficult to get a release." A film like Gandu came as “a slap on the face" of a wave of domestic dramas that were “stifling and didn’t show anything happening beyond well-furnished middle-class homes", Biswas says. “What was unconvincing and disturbing about Gandu was a very male and adolescent expression. I think Amitabh is much more contemplative - whatever one’s disagreements with his film, he has pushed it beyond explicitness and sensationalism into a zone of contemplation."
Kolkata’s advantage is that it isn’t yet facing the pressures of being a centre of global capital, like Mumbai or Delhi. It is in that sweet place between its radical past and possibility-filled present. “This city makes space for us to be here," Q says. “The film-makers here are not contaminated." Kolkata lets an actor like Rii coexist with the poppets and retiring beauties of the mainstream film industry - even though, she says, people still don’t know how to slot her. “My life is so abnormal," she points out. “I live with my boyfriend who is named Q and directs me in films for which he asks me to suck another man’s cock. They are completely head-fucked".'


20 luglio 2022

STRANIMONDI 2022


L'evento Stranimondi si svolgerà a Milano, presso la Casa dei Giochi, dall'8 al 9 ottobre 2022. Fra gli ospiti, segnalo Priya Sharma, scrittrice britannica di origine indiana. Nel comunicato ufficiale si legge: 'Priya Sharma, scrittrice britannica di speculative fiction, è tra le più promettenti voci del panorama weird e fantastico contemporaneo. (...) È salita alla ribalta con l’antologia All the Fabulous Beasts (2018) e il romanzo breve Ormeshadow, entrambe le opere vincitrici dello Shirley Jackson Award e del British Fantasy Award e di prossima pubblicazione in Italia. Le sue storie esplorano temi come la diversità, la ricerca d’identità, la sopravvivenza, il concetto di “mostruosità”, e la sua poetica è spesso riconducibile al realismo magico. (...) Sue storie sono state tradotte in spagnolo, francese, ceco, polacco e italiano. A Stranimondi verrà presentata in anteprima l’edizione italiana di Ormeshadow (Edizioni Hypnos)'. 

Il sito di Priya Sharma riporta il comunicato stampa di Edizioni Hypnos: 
'Ormeshadow di Priya Sharma in arrivo a ottobre! Siamo felici di annunciare l’uscita di Ormeshadow, di Priya Sharma, tra le punte di diamante della nuova generazione del weird inglese. (...) Ormeshadow, opera vincitrice dello Shirley Jackson Award 2019 e del British Fantasy Award 2020, è una toccante storia di formazione, tra atmosfere oscure e messaggi di speranza, che presenta per la prima volta al pubblico italiano il talento di Priya Sharma. Ormeshadow sarà presentato in anteprima a Stranimondi 2022 mentre l’uscita ufficiale è prevista per il 13 ottobre 2022 nella collana Visioni, con traduzione di Elena Furlan.
Sinossi
Inghilterra. Età vittoriana. La vita del giovane Gideon Baltam ruota attorno alla famiglia e ai duri ritmi della fattoria di Ormesleep nella località di Ormeshadow, luogo intriso di miti e leggende: Orme, un drago sepolto e addormentato, pervaso da sogni di risentimento, di gelosia, di morte, si prepara al risveglio. O così almeno dicono le leggende.
My huge thanks to Edizioni Hypnos and Stranimondi - I am VERY excited to be attending the launch in Milan in October 2022. This book was originally published (...) in 2019'.


Vi riporto uno stralcio dell'intervista concessa da Priya Sharma a Tina Pavlik, pubblicata da Horror Writers Association il 7 maggio 2022. Asian heritage in horror: interview with Priya Sharma:

'Do you make a conscious effort to include Asian Diaspora characters and themes in your writing and if so, what do you want to portray?
I find this question difficult as I don't fit into a box easily. I come from a mixed heritage background (Indian/a quarter English) and grew up in the UK. We were one of two Asian families in our town and the other didn't speak to us. To this day I'm still not sure why that was. As a result of her Anglo-Indian upbringing my mum faced racism from both Indian and English people. I felt that very keenly and I think this has had an impact on how I see the world and how I write. My parents wanted me to fit in, which manifested itself in several ways. They gave me the very anglicised nickname of Pippa and didn't teach me Hindi. I feel very divorced from my Indian heritage and this reflects in my writing. I am neither one thing or another. I fear writing more traditional Asian Diaspora characters as I am scared of getting this wrong and causing offense. Or doing it badly and reaping scorn. The one time I did this was writing about an Indian man in a story called The Englishman. It's about my dad returning to India after over twenty years of living in England. I could do that with confidence as I took that trip with him.
What has writing horror taught you about the world and yourself?
Horror is everywhere, in the fabric of the everyday. Some people don't want to face what makes them afraid or uneasy, but I'd rather look at it face on. The unknown is always worse than the known. It's taken me a long time to realise why I like horror and it's only through writing it that I understand why. When I write about the painful things in my life, I find horror and the fantastic an easier way of processing them. The reality of suffering is truly terrible. It's real-life dramas about terrible events or experiences that I struggle to watch or read about. I find them easier to consider when cloaked in the fantastic and horrific than when looked directly. It abstracts them. There's also a lot of hope and redemption in horror, much more than people think. (...)
How do you feel the Asian community has been represented thus far in the genre and what hopes do you have for representation in the genre going forward?
If you're talking about representation in western markets I never really saw Asian characters in the books available to me when I was growing up, except as someone strange/exotic/disposable/mystic. Their being Asian was their single defining characteristic. I think/hope that's changing and they are moving to the centre of the stage as fully fleshed-out characters.
Who are some of your favourite Asian characters in horror?
Cyrah from "The Devourers" by Indrapamit Das. She experiences some horrific things but is a survivor. I loved how her journey ended. The other is the protagonist of Vikram Paralker's "Night Theatre" - a surgeon who is visited by the dead. It's not billed as horror but there are some elements of horror there. He is a flawed man who is just doing the best he can with what he has.
Who are some Asian Diaspora horror authors you recommend our audience check out?
I'm adding writers here that write fantasy/magical realism, dystopian fiction also: Isabel Yap, Indrapramit Das, Usman Malik, Vikram Paralker, Salman Rushdie, Rena Mason, Lee Murray, Chitra Banerjee Divakaruni, Kazuo Ishiguro, Mimi Mondal, Nadia Bulkin, Alma Katsu, V.H. Leslie. I can't resist including non-genre writer Jhumpa Lahiri for her short stories, which are a masterclass in the form'.


Aggiornamento del 29 marzo 2024 - Priya Sharma scrive nel suo sito: 'Ho avuto la fortuna di essere ospite a Stranimondi a Milano nel 2022 in occasione della pubblicazione della mia novella, Ormeshadow (Hypnos Edizioni). È stata un’esperienza emozionante: sono rimasta colpita dal loro amore per la narrativa di genere e da quanto tutti siano stati calorosi e accoglienti. Che persone fantastiche'. 

19 luglio 2022

YASH CHOPRA: A SOCIO-POLITICAL READING

[Archivio]

Vi riporto un articolo del 2012 nel quale l'autore analizza la filmografia di Yash Chopra, e nel contempo individua - con largo anticipo sui tempi - il sorgere di una certa ideologia, hindu e integralista, oggi imperante (lontanissima dalla mentalità di Chopra). 
Yash Chopra: A socio-political reading, Amaresh Misra, The Times of India, 23 ottobre 2012:

'Karan Johar is part of the breed of directors who emerged in post-liberalisation India in the 1990s with the uncannily aggressive - but softer than tissue - feel that ended the era of underdog violence, reflected by the angry young man icon, in Hindi-Urdu cinema. (...) Karan Johar regards the Yashraj genre of filmmaking his primary inspiration - by this, it is obvious that Johar restricts Yash Chopra’s legacy to so-called romantic and social films. But Yash Chopra was larger than life. He made huge romantic spectacles, and he also directed ‘Deewaar’ and ‘Trishul’, the two films that provided a new dimension to the subterranean confrontational spirit, apparent in the angry young man.
It is not easy to assess Yash Chopra. If B.R. Chopra, his equally prolific and good filmmaker elder brother, symbolized the pro-Urdu, secular spirit of the Nehruvian era, Yash Chopra represented truly, the nuances of the Indira Gandhi period. Yash Chopra was a centrist. But (...) Yash Chopra’s films, more than movies made by art filmmakers, echo his times. Yash Chopra was a master at combining opposites. Even his romantic films carry social and class contradictions that never get resolved. They are simply, great social documents.


For many of us who belong to the pro-underdog, belligerent, ‘Sholay’ generation, the rise of Sooraj Barjatya, Aditya Chopra, Sanjay Leela Bhansali, Karan Johar, and several others in their vein, still signify a hidden political agenda. This was a cinema that made the overseas market look more important than the home one; in its stories of rich NRIs, plush houses and  plastic, semi-westernized ‘beautiful people’, there was no place for dirt, grime, hardboiled action, the working class hero, the earthy, curvaceous Indian beauty, or even the sophisticated glamour of yore.
Especially in the films of Sooraj Barjatya and Karan Johar, the landscape did not reflect even the average Indian cinema reality - family replaced the individuality, displays of jewellery replaced human stories of flesh and blood, mush replaced romance, conservatism replaced liberalism,  masochism replaced machismo, surrender to status quo replaced rebellion, homogeneity of culture replaced celebration of plurality, garishly decorated bungalows - with a vapid, neo-rich, quasi-feudal, quasi-colonial reactionary atmosphere - replaced the smells and sounds of slums, middle class homes, sons of the soil, patriotic villages and the Indo-Muslim - or Anglo-Indian - havelis and bungalows of the traditional elite. Furthermore, soft, infantile sentiments and tears replaced intense, adult emotions; ritualistic wedding music replaced classical and post-classical, original, Indian harmonies of pain, love and longing; soft Hindutva replaced secularism; locales in US and Europe replaced indigenous, regional/local contexts. More importantly, the Muslim social - a genre in its own right till the 1980s - disappeared without a trace. Worse, even the sympathetic Muslim character - an essential ingredient of the average nationalist/patriotic or ordinary Hindi-Urdu film - simply vanished, or was replaced by the Muslim terrorist villain. Needless to add, in this unreal cinema of the 1990s (...) weak, pliable and squeamish values replaced Pan-Indian - Hindi-Urdu belt and South Indian - notions of masculinity that formerly constituted the mainstream.   

  
After going through the elite/middle class fury against old generation values and the corrupt, unfeeling, criminal elite in the 1970s, the note of anger and mutiny, evident in Hindi-Urdu films from the late 1960s onwards, went on to assume by the 1980s the form of an anti-system upheaval. In 1983, Amitabh Bachchan played a working class hero, raised in a Muslim household celebrating composite Hindu-Muslim-Sufi symbols, in Manmohan Desai’s ‘Coolie’, a super hit film. In society and politics, this was the militant trade union/communist/Datta Samant era. It was also around this time that the anti-Muslim, anti-working class lobby in Mumbai woke up. Meetings of cinema personalities - boycotted by secular artistes/stars like Dev Anand - were arranged with Bal Thackeray, the ultimate strike breaker, anti-working class, and anti-Muslim, figure, of Mumbai. (...)
In India, the 1990s thus represented a classic U turn, a betrayal entrenched in class, caste, ideology and notions of taste, made by pro-urban, (...) pro-NRI sections, unleashed by the liberalisation drive that dominated society and Hindi-Urdu cinema by default. These forces did not just overhaul the working or the lower middle class ethos in films. They came down hard on the pre-liberalisation elite - represented by Jawahar Lal Nehru and the communist/Left team of Indira Gandhi - that used revenge, Urdu poetry, and anti-rich anger, as tools, to set a mainstream, secular/composite, pro-poor, Left-of-centre socio-political schedule into motion.


On hindsight, the term Bollywood - criticized heavily by Amitabh Bachchan, the hero of the pre-mush era - clearly seems part of this anti-underdog, anti-Urdu politics. Before 1991, no one had even heard of Bollywood. A cinema which always prided itself on its different/eastern style of narrative, aesthetics and mood, was now being marketed in the west as some sort of an extended VHS footage with twists and turns of a Bania-Gujarati-Marwari wedding.
It is another matter that even as squishy songs celebrating re-invented (for the neo-rich) Gujarati melodies played out in a Sanjay Leela Bansali or a Karan Johar film, Muslim houses were being burned, men killed and women raped, and Indian working and middle class soldiers of all faiths were dying in hundreds in the remote, hilly, frigid battlefields of Kargil. No one ever thought of making a film on these hardboiled issues. Far away from the cushy, comfortable world of these films, Adivasis and Left activists of all faiths were being killed in fake Police encounters. The fact remains that behind (...) lies the story of a whole, ugly, Nazi style/fascist, right-wing shift of Indian society.


It is here that Yash Chopra struck a different note.  Even in the late 1950s, Chopra, in early films like ‘Dhool Ka Phool’ (1959) and ‘Dharmputra’ (1961), celebrated Hindu-Muslim unity and composite culture. In ‘Dharmputra’ Chopra went as far as presenting the only critique of what we know now as Hindutva fundamentalism; with a RSS [Rashtriya Swayamsevak Sangh, an Indian right-wing, Hindu nationalist, paramilitary volunteer organisation] style hero - actually the illegitimate son of a Muslim couple raised by a compassionate Hindu family during the pre-Independence days of composite culture, played by Shashi Kapoor gunning for Muslim blood in a puritan frenzy during the partition days - as its centre-piece, ‘Dharmputra’ is simply, too radical a subject. (...)
‘Dharmputra’ generated controversy and violent protests from the far-right. In the mid-1960s - at a time when the post-Independence consensus of an alliance between classes was giving way to violent class conflicts that would change Indian polity for all times to come - Chopra re-introduced the concept of class in the making and unmaking of love and destinies. Earlier, in the late 1950s and early 1960s, Shammi Kapoor’s apolitical, pro-rich romances had obliterated all traces of class. Besides inaugurating the trend of multi starrers, Chopra’s ‘Waqt’ (1965), redefined romance as a stylish emotion carrying the vicissitudes of fate, class to class relations - in this, a poor boy’s shy missives to his rich girlfriend gets strangled from within. ‘Waqt’ also brought into focus the behavioural aspect of class; the pain a man, raised in a rich household, undergoes after learning of his original orphan status in which his foster parents found him, as he prepares himself to give up his rich fiancée voluntarily.       


After ‘Waqt’, Yash Chopra made ‘Aadmi aur Insaan’ and ‘Ittefaq’ - the latter, a nerve racking, song-less thriller; earlier, in the 1960s, BR Chopra, Yash Chopra’s elder brother, made the highly successful ‘Kanoon’, another suspense drama without songs. By the 1970s, Yash Chopra set up his own banner. ‘Daag’, his first film as a producer, tackles issues of bigamy and compromises a man has to make in order to shed the burden of past, and to come to grips with the often numbing, varied faces of love; seen today, ‘Daag’ - termed a romantic film - overturns the very idea of a Mills and Boons romance. 
Soon, Yash Chopra - in Deewaar (1975), Kabhi Kabhie (1976), Trishul (1978), Kaala Patthar (1980), Silsila (1981), the films he made one after the other in a tumultuous era of Indian politics - took head on the challenge of exploring the various/multiple/darker shades of the angry young man. ‘Deewaar’ can be seen more as a Salim-Javed script than a Yash Chopra film. Here, Amitabh Bachchan’s anger transcends the status-quo, it becomes a weapon for the underdog to enter the big game, make money and live a good life before tragedy and the strange, idealistic values of a society bound by dated duty, law and rigid morals (a semi-feudal society were notions of good and bad, right and wrong stand twisted in cinematic subtext) strikes him down. Played by Parveen Babi, Amitabh Bachchan’s lover too originates from the lower depths of society. The 1970s were perhaps the only time when the woman from the wrong sides of the track - the prostitute, or the call girl, a word that could have appeared only in those morally ambiguous times - was shown without pity, as an individual in her own right, capable of making or breaking decisions. The absence of maudlin drama was a product of Salim-Javed’s astoundingly encrusted and well-heeled writing. But Yash Chopra’s filming of Parveen Babi’s first encounter with Amitabh - at a time when Amitabh’s character, originally a Bombay dockyard coolie, has literally put his life on the line to rise as a cool, handsome, well-dressed gangster; and Parveen Babi’s character, with the famous ‘I am falling in love with a stranger’ song, playing tenderly and tantalisingly in the background a minute ago, saves him accidentally, through the 786 number, considered auspicious by Muslims, badge which Amitabh’s Hindu character carries from his coolie days - is the stuff of legends. Danger, glamour, the threat of betrayal, inherent everyday secularism of Hindus and Muslims of India, sexual undercurrents, baritone of the base guitar, the elusively posh words from female lips, come together to create perhaps, the most modern of all scenes in Indian cinema as a whole.   


After ‘Deewaar’, Chopra made ‘Trishul’ - in which an ‘illegitimate’ son seeks revenge, in another unforgettable piece of writing from Salim-Javed, the script writers of this film as well, on his ‘illegitimate’ father. To achieve his goal, Amitabh Bachchan’s character is willing to go to any length, even trying to woo with cold but intense, brooding detachment his stepbrother’s fiancée. In this moment of cinema, Amitabh’s character crosses the line reserved for heroes playing negative characters in Hindi-Urdu cinema. ‘Trishul’ harks back to an earlier era - the films of Mehboob Khan, who showed in ‘Amar’ (1955) a perfectly respectable Dilip Kumar character, engaged to a beautiful Madhubala, suddenly raping Nimmi, a village lass, without motive, in an abrupt moment of passion, heat and desire. It is at this point that you finally realize that Chopra knew men. And he knew that like any passion, revenge too carries a darker side. 
After ‘Trishul’, Chopra explored Amitabh’s dark side even in ‘Kabhi Kabhie’, perhaps one of the best romantic films of the 1970s. Starting as a poet, Amitabh’s character turns his passion into a brooding, self inflicted drive of pain and outburst, with vengeance always lurking around in the corner. In ‘Kaala Patthar’, Amitabh plays an ex-naval officer turned coal mine worker; a man (...) haunted by the burden of a past guilt, where, in a moment of weakness, he betrayed his comrades. Then in ‘Silsila’, Chopra extended the line of romance to bring in extra-marital issues, a forbidden topic then, with the dream cast of Amitabh playing the husband, Jaya Bhaduri the wife, and Rekha, the other woman. 


Chopra flirted with unconventional issues even in ‘Lamhe’ (1991), a film about a young girl’s obsession with an older man who once nurtured unrequited love for her late mother; unlike films today, ‘Lamhe’ was not a copy of a Hollywood movie - previously, Chopra made ‘Chandni’ (1989), that ended his post ‘Kaala Patthar’ dry run at the box office during the 1980s. This was a time when Chopra made films like ‘Mashaal’ (a critical success but a commercial failure) and ‘Vijay’. But, and this is important, Chopra did not fall prey to the philistine mayhem of the 1990s. He made ‘Dil to Pagal Hai’, which despite containing candy floss elements still retained a whiff of Chopra’s strong grounding. DTPH also introduced new age jazz dance style in Hindi-Urdu cinema.
With ‘Veer-Zaara’ (2004) - actually a passionate cry at the lost strands of Hindu-Muslim unity dressed as a cross border romantic story of an Indian Hindu man and a Pakistani Muslim woman - Chopra appears to have come full circle. He wanted to retire. Then he thought about making one last time ‘Jab Tak Hai Jaan’; this film is ready for release. But Chopra is no more. Maybe he would have liked it this way, maybe not; not time, but his last film - which his fans and audiences have yet to see - will provide the answer'. 

CINECITTÀ & BOLLYWOOD: PROTOCOLLO D'INTESA


Vi segnalo l'articolo Cinecittà & Bollywood: firmato il protocollo d'intesa, pubblicato ieri da Cinecittà News:

'Prende il via il progetto speciale India organizzato da Cinecittà per la DGCA - Direzione Generale Cinema e Audiovisivo del MiC. In un tour di 3 giorni a New Delhi, Roberto Stabile, Advisor per l’internazionalizzazione e Responsabile dei Progetti Speciali della DGCA del MiC presso Cinecittà, ha messo a punto il programma che, nei prossimi tre anni, porterà ad un avvicinamento a Bollywood.
Verranno messe in campo numerose azioni volte a presentare l’Italia come location ideale per le produzioni audiovisive indiane, si incentiveranno i distributori indiani ad acquistare i film italiani e si organizzeranno numerose occasioni di incontro e scambio tra produttori e creativi dei due Paesi, per sviluppare nuove coproduzioni. Tutte le attività, che contano sul pieno supporto dell’Ambasciata italiana a Delhi e della rete consolare in India, sono state condivise in una serie di incontri ai massimi livelli presso FICCI (la Confindustria indiana), il Ministero delle Cultura e il Ministero degli Affari Esteri e prenderanno il via il 5 settembre in occasione del Focus India organizzato per la DGCA del MiC durante la Mostra di Venezia.
Il Ministro di Stato per gli Affari Esteri dell’India, Meenakashi Lekhi, ha accolto con entusiasmo il piano di attività e dato la propria disponibilità a supportare le iniziative, garantendo fin d’ora la sua presenza al Focus di Venezia.
Tra le numerose attività, è prevista, a metà ottobre 2022, una nuova rassegna di film italiani in India: le proiezioni di Italian Screenings saranno realizzate in contemporanea a New Delhi, Mumbai, Calcutta e Bangalore, grazie al supporto dell’Ambasciatore italiano a Delhi, Enzo De Luca. Frutto di un Protocollo di intesa tra Farnesina, Accademia del Cinema Italiano Ente David di Donatello e ANICA, tale iniziativa si ripeterà in numerosi sedi diplomatiche. Sarà questa l’occasione, da un lato, per presentare ai produttori locali tutti gli incentivi che l’Italia è in grado di offrire, a livello statale e regionale, a chi viene a girare nel Bel Paese e, dall’altro, per illustrare ai distributori i fondi previsti a supporto di chi porta nelle sale indiane i film italiani. A marzo 2023, inoltre, è in programma un importante incoming di operatori audiovisivi indiani e di star di Bollywood a Roma, guidati dalle principali autorità audiovisive indiane'.

Aggiornamento del 4 settembre 2022: l'evento Focus on India si è tenuto ieri.
Vedi anche Mostra del Cinema di Venezia 2022, 4 settembre 2022

12 luglio 2022

AKBAR. IL GRANDE IMPERATORE DELL'INDIA


[Archivio]

La mostra Akbar. Il grande imperatore dell'India era stata allestita dal 23 ottobre 2012 al 3 febbraio 2013 presso la Fondazione Roma Museo. Come evento collaterale, era prevista una rassegna di cinema al Quirinetta, Bollywood Film Meeting Roma, inaugurata da Jodhaa Akbar. Riporto di seguito il comunicato stampa:

'Lʼarte e lʼarchitettura del subcontinente indiano da sole potrebbero bastare per costituire un capitolo vastissimo e tra i più affascinanti della storia dellʼUmanità. Il dato forse più significativo è che fin da quando i musulmani comparvero stabilmente in India, nel XII secolo, passando per lʼAsia centrale, si trovarono a confrontarsi con la cultura artistica hindu, ma anche jainista e buddista, completamente diversa, sia nellʼimpiego di materiali che nelle strutture architettoniche. Dalla fusione di tradizioni diverse, ma non incompatibili, ebbe dunque la sua origine e originalità lʼarte e lʼarchitettura indoislamica, il cui periodo dʼoro coincise con quello della dinastia Moghul, una stirpe di conquistatori (1526-1858, anche se lo stato unitario si esaurisce nel 1707), che diede vita a un impero più grande dellʼattuale India, spostandosi verso la Persia, dapprima a Kabul e poi a Delhi e successivamente ad Agra.
Akbar (1542-1605), “Il più grande”, fu uno dei più potenti sovrani dellʼIndia e del mondo, appartenente alla dinastia Moghul, figlio di Humayun e nipote di Babur, che si diceva discendente di Chingis Khan e di Tamerlano. Non vʼè dubbio che Akbar diede al suo regno (1556-1605) prima di tutto lʼunità territoriale, supportata da un potere statuale centralizzato e da unʼamministrazione riformata in grado di dar vita a una fase di prosperità economica, una stabilità politico-militare, accompagnata da quella sociale e da un forte rinnovamento culturale e spirituale. Diventato imperatore a soli tredici anni, non gli si poté insegnare a leggere e scrivere; Akbar rimase così analfabeta, ma ciò non gli impedì di sviluppare un gusto e una passione per le arti: pittura, musica, letteratura e architettura venivano coltivate a corte con grande entusiasmo ed eclettismo.

Akbar si perde nel deserto mentre caccia asini selvatici nel 1570

Akbar avviò una politica di grande apertura culturale, filosofica e religiosa, che valse al sovrano la possibilità di conoscere in modo approfondito la tradizione hindu, di valorizzarla e di farne, insieme al rispetto delle varie religioni autoctone ed etnie, fattori fondamentali del proprio successo politico e di consolidamento del proprio potere. Spinto dalla sua tolleranza religiosa puntò alla creazione di una fede sincretista, che fondesse lʼislam e lʼinduismo. Per raggiungere tale obiettivo chiamò vari esponenti di ogni origine e credo presso la sua corte nominandoli ministri, eliminò la tassa imposta ai non musulmani (jizya) e volle allearsi con lʼantica stirpe di guerrieri hindu (rajput), sposando, in prime nozze, Hira Kunwari, nota anche col nome semi mitico di Jodha, figlia del Raja Bharmal di Amber, che poté continuare a praticare lʼinduismo anche nella corte islamica dei Moghul. La tolleranza e il rispetto per le differenti religioni autoctone e per le etnie si rispecchiavano, oltre che nella vita privata e pubblica di Akbar, anche nelle costruzioni architettoniche del suo regno, in particolar modo nella capitale dellʼimpero, la Città della Vittoria (Fatehpur Sikri), dove, dopo la nascita del primogenito (1569), si trasferì con tutta la sua corte. Akbar riprese inoltre le arti importate dal padre Humayun, grazie agli artisti persiani, e con alcuni pittori diede vita a un vero e proprio centro di arti pittoriche frequentato da più di cento aiutanti per la realizzazione di opere di incomparabile bellezza, il cui particolare stile si diffuse in tutte le province del regno. (...)


La Fondazione Roma promuove la prima mostra, in un contesto nazionale e internazionale, a essere presentata al pubblico per la completezza di analisi della figura del Grande Akbar e delle arti, rappresentative sia della sua vita privata che politica, sviluppatesi durante tutto il suo governo. Lʼintero percorso espositivo risplende della bellezza delle oltre centotrenta opere, mai così ricche di storia e fascino, diverse per tipologia e materiali; spaziano da raffigurazioni dellʼepoca (tempere e acquerelli, arricchiti con lʼoro, dipinti, illustrazioni di libri) a manufatti per la vita quotidiana e per i viaggi in Occidente (rarissimi frammenti di tessuti, antichi tappeti, coperte nuziali, portagioielli, cassettoni finemente intarsiati dʼavorio, ottone e madreperla, e armi da combattimento o da parata, tempestate di pietre preziose o intarsiate di avorio, legno e velluto). A corredo della mostra e a testimonianza dello splendore della Città della Vittoria, è possibile ammirare e ripercorrere la ricostruzione di una delle moschee di Fatehpur Sikri ispirata a quella di Jami Masjid; la vicinanza con il contesto che ha ispirato gli autori delle opere esposte per questa occasione, seppur simulata attraverso la ricostruzione di ambienti, arredi e oggetti originali della vita di corte del grande imperatore, vuole assolvere unʼimportante funzione didattica, che avvicini e aiuti lo spettatore a entrare in contatto il più possibile diretto con quello che fu lo straordinario regno di Akbar. (...)
Emmanuele Francesco Maria Emanuele
Presidente Fondazione Roma

Akbar riceve gli omaggi

LA MOSTRA

I SEZIONE - Vita a Corte, governo e politica
La prima sezione racconta alcuni momenti della vita pubblica e privata dellʼimperatore, attraverso opere come Akbar riceve gli omaggi e La nascita di Salim nel 1569. Salim, primogenito di Akbar, nacque dallʼunione con Hira Kunwari. Diventerà imperatore con il nome di Jahangir, il conquistatore del mondo. Egli vide la luce a Fatehpur Sikri, dove Akbar aveva costruito la sua nuova capitale come ringraziamento per il figlio inaspettato. Le vesti dai colori sgargianti e la ritualità degli usi e costumi di quellʼambiente sono mirabilmente espresse in queste opere, dove le architetture del nuovo regno fanno da sfondo alle preziose tempere e acquerelli su carta arricchiti con lʼoro.

II SEZIONE - Città, urbanistica e ambiente
La seconda sezione illustra, attraverso raffigurazioni dʼepoca, la costruzione delle città e lo sviluppo dellʼarchitettura e dellʼurbanistica. Si vedono uomini e animali - tra cui i grandi elefanti indiani - impegnati nellʼedificazione di mura e palazzi, secondo il nuovo stile voluto da Akbar, come per esempio in Akbar ispeziona la costruzione di Fatehpur. In mostra anche immagini che raccontano lʼimpegno degli imperatori precedenti nelle opere pubbliche, come si può vedere in Babur supervisiona la costruzione di un bacino presso la fonte di Khwajah sih yaran vicino Kabul, proveniente dal Baburnama (Biografia di Babur).

La nascita di Salim nel 1569

III SEZIONE - Arti e artigianato
In questa sezione vengono esposti alcuni manufatti, sia per uso locale sia per lʼesportazione in Occidente, come antichi tappeti e coperte nuziali, porta gioielli e cassettoni finemente intarsiati dʼavorio, ottone e madreperla, allo scopo di documentare la ricchezza e la ricercatezza della corte di Akbar. Sono presenti lavori elegantemente decorati, con animali e motivi fitomorfi, come in Tappeto con coppie di uccelli su paesaggio e nel Frammento di tappeto. In mostra anche manoscritti, sculture, tessuti indo-portoghesi e oggetti di arredamento provenienti da alcune delle principali raccolte indiane, europee, statunitensi e arabe.

IV SEZIONE - Guerra, battaglia e caccia
Nella quarta sezione, opere come Babur a caccia di rinoceronti vicino a Bigram (Peshawar) il 10 dicembre 1526 e Lʼavventura di Akbar con lʼelefante Hawaʼi, narrano scene, mitiche e storiche, di combattimento e di lotta, e mostrano la pratica delle grandi spedizioni di caccia fatte con i mastodontici elefanti. Tra questi, spesso ritratto come montatura di Akbar, emerge Hawaʼi, che, secondo la leggenda, fu uno dei più forti elefanti esistenti, difficilissimo da gestire, ma dominato dal grande imperatore. Vengono esposte anche armi da combattimento e da parata, spesso decorate da pietre di grande caratura, come la Daga con elsa in bronzo dorato, incastonata di rubini o la Spada curva a un taglio, in acciaio damaschinato, legno e velluto.


V SEZIONE - Religione e mito
La quinta sezione racconta la religione del tempo, il rapporto tra i differenti culti - principalmente islamico e hindu, ma anche jain, zoroastriano e cristiano - e il sentimento della tolleranza tanto diffuso da Akbar. Illustrazioni mitologiche, sacre e letterarie sono rappresentate in opere come la tempera su carta intitolata Un angelo in conversazione con un gruppo di europei e la miniatura La trasformazione dellʼoceano [di latte in burro], che narra la grande impresa di dèi e demoni per raggiungere lʼambrosia, nettare della vita eterna. (...)

BOLLYWOOD FILM MEETING ROMA
Alla vigilia delle celebrazioni per i cento anni del cinema indiano, che si terranno nel Paese asiatico nel 2013, la rassegna Bollywood Film Meeting Roma intende offrire uno sguardo generale sulla Bollywood contemporanea, proponendo una selezione di lungometraggi prodotti negli ultimi tre anni - espressione sia del cinema mainstream che di quello indipendente - particolarmente rappresentativi dei diversi generi cinematografici, di alto valore artistico e di grande successo di critica e di pubblico. Tradizionalmente conosciuta per le sue prevedibili trame romantiche, la Bollywood delle grandi case di produzione sta oggi vivendo un momento di grande sviluppo, che porta i registi a sperimentare linguaggi, tematiche e stili diversi. Contemporaneamente si assiste alla crescita del cinema indipendente, che ha dato vita a nuove tendenze in grado di attirare lʼinteresse dei più importanti festival internazionali. Aprirà la rassegna lo spettacolare film storico sulla vita dellʼImperatore Akbar Jodhaa Akbar (2008), di Ashutosh Gowariker, già regista dellʼacclamato Lagaan (2001), candidato agli Oscar come miglior film straniero'.

L’avventura di Akbar con l’elefante Hawa’i

RASSEGNA STAMPA/VIDEO (aggiornata al novembre 2019)

- Akbar, il più grande, Antonio Mazza, News Arte & Cultura, 4 maggio 2015:
'Oltre 130 opere (...) il cui insieme mostra in filigrana il regno di Akbar ed il suo tempo. E subito, con “Vita a corte, governo e politica”, ci si rende conto della fastosità ma, insieme, anche della levità di quel contesto, poiché in tutte le rappresentazioni, il verismo della scena, pur impreziosito da elementi di contorno (acquerello opaco e oro su carta), non mostra quelle ridondanze stilistiche inevitabili quando si celebra il Potere. Così è, ad esempio, per Akbar in pellegrinaggio, la nascita del figlio Salim o il ritratto di Zain Khan, di grande sobrietà (ed eleganza) nonché di una cura del particolare che rimanda alle miniature persiane. E questo appare ancora più evidente nella seconda sezione, “Città, urbanistica e ambiente”, in particolare (secondo me) ne “La costruzione della città di Fatehpur Sikri” (il centro politico-religioso dell’impero) e “La costruzione del forte di Agra” (la capitale amministrativa), dove la minuziosità è davvero incredibile (quasi si percepisce la polvere sollevata dagli operai). E, per analogia, non puoi non pensare ai fiamminghi ed al loro gusto del particolare. (...) Infine la quinta sezione, “Religione e mito”, forse la più intrigante, perché mostra il clima di tolleranza che regnava nel paese. (...) Non sono solo i temi diciamo così “locali”, come il derviscio, il mullah o le illustrazioni dei libri sacri dell’India, come il “Ramayana” e il “Mahabharata”, ma quelli cristiani, importati dai gesuiti, a catturare l’attenzione. È curioso vedere un San Luca, la Natività, Gesù e la samaritana o le scene della crocifissione e pensarle eseguite da artisti moghul, che si ispiravano a modelli europei'.
- Video La meravigliosa India di Akbar, Rai Cultura, novembre 2019

Angelo in conversazione con un gruppo di europei

03 luglio 2022

HOW BOLLYWOOD'S VIEWS ON PAKISTAN EVOLVED


[Archivio]

How Bollywood’s Views on Pakistan Evolved, Raksha Kumar, The New York Times, 16 agosto 2012:

'If one looks at India’s national trajectory through the lens of the Hindi film industry, in hundred years of its existence, there will be one major gap: India’s troubled relationship with Pakistan was conveniently ignored by the industry for decades.
The Hindi film industry, usually a proactive observer of social issues, chose to keep mum about the partition of India and Pakistan in 1947, and, interestingly, made no references to Pakistan in any of the films in the initial years of India’s independence. “Partition was a personal embarrassment for various people in the industry,” said Professor Nirmal Kumar, co-author of “Filming the Line of Control”. “Therefore, one never saw any films that referred to Pakistan, even diagonally, in the initial years of India’s formation.”

Over the next few decades, though, the need for patriotic films arose as the newly formed nation was looking for a reason to remain united. Pakistan became a convenient excuse. As India’s national identity began to strengthen in the 1960s, jingoistic films began to emerge. Manoj Kumar’s 1967 classic, “Upkar,” for instance, had covert references to Pakistan, but never named the country outright. The protagonist in the film is suggestively called Bharat (Hindi for India), who takes a moral high ground when his younger brother asks for the family property to be divided between them. The younger brother (Pakistan is metaphorically called the younger brother of India) is the evil one, who exploits the older one’s tolerance. “Such family metaphors were used by the industry until much, much later,” said Namrata Joshi, associate editor of Outlook magazine.


Professor Kumar said it wasn’t until 1973, in Chetan Anand’s “Hindustan Ki Kasam,” which was based on the 1971 war between the two countries, that a movie made unambiguous references to Pakistan. “But Pakistan still remained an unnamed malevolent power on Indian screens,” he said. A decade earlier, Mr. Anand had directed a groundbreaking war film, “Haqeeqat,” based on the Sino-Indian war of 1962, where the Chinese were shown as being brutal and insensitive. “With China, you could be blatant,” Professor Kumar said. “Pakistan is perceived as a brother that used to be. You can’t be blatant where emotions are involved.”

Subtle but antagonistic positioning against Pakistan continued in Bollywood until the 1980s, when India was characterized by internal turmoil. Early in the decade, the Khalistan secessionist movement picked up pace in Punjab, and Pakistan’s alleged clandestine support for such a movement became a common subject in Indian media. The decade progressed with tensions increasing in Kashmir and reaching its peak, with Pakistan’s involvement in supporting the secessionist movement becoming common knowledge. “Added to it was the fact that the Hindi film industry had a new set of filmmakers who did not directly connect with Partition,” Professor Kumar said. This gave a further impetus for filmmakers to make films where Pakistan was clearly the villain.

“In such a scenario, Raj Kapoor’s ‘Henna’ was an exception,” said Shubhra Gupta, columnist at The Indian Express. “Henna,” a 1991 release, was a love story between an Indian man and a Pakistani woman, which did well despite the markedly anti-Pakistan mood in India. The 1990s saw a sudden spurt in Hindi films talking about the tensions with Pakistan. “The problem was that Indian filmmakers chose to see Pakistan in only military terms. No one tried to portray or even find out what Pakistani society looked like,” Professor Kumar said. “They began to equate Pakistan to its ‘evil’ military.” Films like “Border,” based on the 1971 war with Pakistan, were released, where patriotism took on a new definition. “You loved India only if you hated Pakistan,” said Ms. Joshi of Outlook.


A typical modern-day Hindi film on the tension between the two countries would have morally upright Indians and sinful Pakistanis. “However, they always distinguished Indian Muslims and Pakistani Muslims. The former were always the good guys,” said the journalist and film critic Aseem Chhabra. The cross-border tensions on screens portrayed a rather subtle gender politics as well. “I don’t remember a film where the girl is from India and the boy from Pakistan,” said Ms. Joshi. “India had to have an upper hand sexually as well.”
The Hindi film industry witnessed some high-octane nationalism in the early 2000s with films like “Gadar” and “Maa Tujhhe Salaam” having blatant Pakistan-bashing scenes. Pakistan was the evil enemy, much like what the former Soviet Union was to the United States during the Cold War. Ms. Joshi said that it was an embarrassing phase in Hindi cinema but that the audience accepted these films and made them huge successes as the mood of the nation was clearly anti-Pakistan after the 1999 Kargil conflict. And the 2001 attack on the Indian Parliament by the militant group Lashkar-e-Taiba.

In 2004, a series of confidence-building measures began between the two countries, which included the demilitarizing of the Siachen Glacier and the demarcation of the international boundary in the Sir Creek area. Against such a backdrop, films like “Main Hoon Na,” which centered on a peace plan between India and Pakistan, did very well in both countries.
Now, for the first time in 100 years of its existence, the Hindi film industry’s outlook toward Indian-Pakistani tensions might be significantly changing. Ms. Joshi said that post-9/11, when the popular Western media was portraying Muslims in a negative light, Bollywood was sensitive to their problems with films like “My Name Is Khan”. “This brought India and Pakistan together,” she added.

The way the Hindi film industry has looked at Pakistan has always been dependent on the mood of the nation and government policies. “But now, filmmakers keep in mind the mood of the market as well,” Professor Kumar said, “because Pakistan is emerging as a huge market for Bollywood films.” As Pakistani diaspora increases in number, this market would further expand. Another big development is the rebirth of the Pakistani film industry. After the “Islamization” phase of the Pakistani society, when the film industry perished, only now are there are small attempts to revive Pakistani-made movies. “This enables India to see the developments in the Pakistani society as opposed to seeing just the military aspect of it,” Professor Kumar said. “This gives the human angle of the ‘enemy’.”
A small-budget but significant release in recent times was “Harud”, an Indian film that doesn’t mince words while talking about the militancy in Kashmir. A decade ago, a commercial release for such a film would have been unthinkable. Despite these changes in sentiment, films featuring cross-border espionage like “Agent Vinod” and Salman Khan’s “Ek Tha Tiger” (...) still face problems with the censors on both sides of the borders. “With Indo-Pak films, as with Indo-Pak relations, it is always one step forward and two steps back,” said Professor Kumar'.