09 novembre 2022

JHUMPA LAHIRI: RACCONTI ROMANI


Da un paio di mesi è in distribuzione in libreria il volume Racconti romani, di Jhumpa Lahiri, pubblicato da Guanda. Nel sito dell'editore si legge:
'Una Roma mista e metafisica, contemporanea ma eternamente sospesa fra passato e futuro, è la vera protagonista, non l’ambientazione, di questa raccolta. Nove racconti, alcuni di respiro romanzesco, in cui riconosciamo una città contraddittoria che ridefinisce sempre se stessa, trasformandosi di generazione in generazione in un amalgama, in un viavai ibrido di stranieri e romani che si sentono comunque sempre tutti fuori posto. Segnati da un ambiente al contempo ospitale e ostile, i personaggi che abitano questi racconti vivono momenti di epifania ma anche violente battute di arresto. (...) L’andamento della scrittura è riconducibile agli autori italiani del Novecento che Jhumpa Lahiri conosce e profondamente ama, a partire da Moravia che riecheggia nel titolo. Ma i temi di questo libro, il quinto che l’autrice scrive direttamente in italiano, sono tutti suoi: lo sradicamento, lo spaesamento, la ricerca di un’identità e di una casa, il sentimento di essere stranieri e soli ma, proprio per questo, in lotta e vitali'.

RASSEGNA STAMPA/VIDEO

- Jhumpa Lahiri racconta Roma. In italiano, Michele Gravino, Il Venerdì, 26 agosto 2022: 
'Quando, nel 2014, stava per uscire In altre parole, il primo libro di Jhumpa Lahiri scritto direttamente in italiano, un giornale titolò: "Jhumpa ha un amante". L'amante era, appunto, la lingua italiana, oggetto di un colpo di fulmine improvviso quanto totalizzante per questa scrittrice nata nel 1967 a Londra da genitori bengalesi e cresciuta negli Stati Uniti, che di lingue ne aveva già due: il bengalese dei suoi genitori e naturalmente l'inglese, in cui pubblicava con enorme successo. Il suo esordio, L'interprete dei malanni, aveva vinto il Pulitzer nel 2000, dal romanzo L'omonimo Mira Nair aveva tratto un film a cavallo tra Hollywood e Bollywood, la raccolta Una nuova terra aveva debuttato al primo posto nella classifica dei bestseller del New York Times.
Poi, giusto dieci anni fa, l'arrivo a Roma per un periodo di studio all'American Academy: "Voglio vivere almeno un anno in Italia, ho pregato mio marito, solo uno" racconta lei oggi. E una vecchia passione (Lahiri ha un dottorato in studi rinascimentali) si trasforma in bruciante innamoramento, fino a farle decidere di prendere casa qui (l'appartamento con terrazza sulle pendici del Gianicolo in cui la intervistiamo), e di trascorrervi i mesi in cui è libera dal suo lavoro di docente universitaria negli Stati Uniti. Ma l'Italia per lei non è un banale buen retiro. (...) No, Jhumpa si innamora soprattutto della lingua: la sceglie, la studia, la fa sua. Oggi, spiega, l'italiano in cui conversiamo non è più un travolgente amante - come in quel malizioso vecchio titolo - ma il partner di una relazione stabile, "senza la fatica, la noia, la frustrazione che possono complicare un matrimonio. È davvero la mia metà, anzi, come si dice in inglese, my better half, la mia metà migliore".
Da quel 2014 Jhumpa Lahiri scrive e pubblica solo nella nostra lingua: in inglese sono uscite solo traduzioni (di libri suoi e altrui, soprattutto Domenico Starnone) e un'antologia di racconti italiani del Novecento. Dopo i saggi di In altre parole e Il vestito dei libri, il romanzo-memoir Dove mi trovo e le poesie di Il quaderno di Nerina,  il 13 settembre esce (per Guanda, suo storico editore) il nuovo Racconti romani. Il titolo, è, naturalmente, un omaggio ad Alberto Moravia e alle sue due omonime raccolte, pubblicate tra il 1954 e il '59. "Moravia è stato il primo autore che mi ha insegnato a leggere in italiano, il Virgilio che mi ha accompagnato alla scoperta di questo universo letterario" spiega Lahiri. "Di lui amo il linguaggio puro, preciso, e anche la scelta della forma breve per comporre un gigantesco affresco della città, della sua vita quotidiana, delle tensioni tra classi sociali. Il racconto è un genere spesso poco apprezzato, ma io trovo sia molto adatto a Roma: qui tutti raccontano, anche da un incontro per strada di due minuti vai sempre via con una piccola storia, un regalo da riportare a casa".
Nei suoi racconti Moravia diede voce ai romani dell'immediato dopoguerra, proletari o piccoloborghesi alle prese con le difficoltà della ricostruzione e i primi segnali della Dolce vita e del Boom. Lahiri sceglie di raccontare la città con gli occhi di chi, come lei, non le appartiene pienamente, ma l'ha in qualche modo scelta: stranieri soprattutto, migranti di prima o seconda generazione, turisti appena sbarcati, expat benestanti destinati a ripartire al termine dell'anno accademico o dell'incarico in un'organizzazione internazionale. Nell'ultimo racconto, Dante Alighieri, una giovane americana di probabili origini indiane - ma l'ascendenza etnica dei personaggi non è mai esplicitata, solo sottintesa - sceglie per un caso fortuito l'italiano come materia di studi e finisce per diventarne una specialista, dividendosi tra le due sponde dell'Atlantico. "Ma non è l'unica storia autobiografica" spiega l'autrice. "C'è una parte di me in quasi tutti i protagonisti del libro. Sono persone che si sentono sempre un po' fuori luogo, cercano una casa o magari hanno troppe case, troppe vite".
"E comunque per me sono tutti romani" continua. "Roma è questo, una metamorfosi continua, un flusso in cui immergersi, e l'italiano mi dà il ritmo per seguirlo, paradossalmente in inglese sono più misurata, ho più paura". La città è raccontata con grande economia di mezzi, i luoghi quasi mai nominati, i capisaldi della Grande Bellezza solo sfiorati, a vantaggio di angoli meno noti ma più vissuti dall'autrice. Come la Scalea del Tamburino, la rampa di 126 gradini che collega Monteverde con Trastevere, proprio sotto la sua casa romana: Lahiri la mette al centro di una lunga sequenza di racconti, con il suo strepitoso panorama e i cocci di bottiglie di birra - residui dei ritrovi serali dei giovani della zona - che minacciano i piedi di chi vi si avventura.
Già, perché l'innamoramento non impedisce alla scrittrice di raccontare anche una Roma sgradevole, inospitale, a tratti violenta. "È un lato che esiste, come in tutte le grandi città, anche se tanti americani preferiscono averne una proiezione falsa, idilliaca. Quante volte mi sono sentita dire: ma in Italia non può succederti niente di male! No, certo, se ci vai solo in vacanza". Così, i suoi racconti esplorano anche le meschinità di certa borghesia intellettuale, espongono i piccoli e grandi razzismi quotidiani subìti dai migranti. "Mi interessa molto l'esperienza di chi si trasferisce qui e cerca di radicarsi" spiega; "tipicamente arrivano prima i maschi, poi fanno venire la moglie, solo più tardi i figli, è un processo lungo e complicato. Io ho potuto anche osservarlo da vicino, incontrando gli stranieri che lavorano al mercato del quartiere, riuscendo a entrare in contatto anche grazie al fatto che parlo bengalese. In fondo continuo a lavorare sui temi dei miei primi libri: ho solo voluto cambiare ambientazione e prospettiva rispetto alle storie degli indiani trasferiti in America come i miei familiari. Ma non ho messaggi da dare, anche in questo seguo Moravia: la letteratura non è politica, se riesco a far riflettere, a spostare qualche punto di vista è bene, ma non ho un'agenda ideologica, non è quello il mio obiettivo".
Dopo alcuni anni a Princeton, Jhumpa Lahiri tornerà all'università dove ha studiato, il Barnard College della Columbia di New York, per insegnare scrittura creativa, italiano e traduzione. Ma prima trascorrerà a Roma un anno sabbatico: "Dovrò fare un po' di promozione per i Racconti" dice, "ma poi mi dedicherò completamente a Ovidio". Assieme a una classicista, ha cominciato a tradurre le Metamorfosi: il lavoro sarà in inglese, ma lei prende appunti in italiano e usa il vocabolario IL, come generazioni di liceali. "Ovidio è un punto di riferimento fondamentale per me: il poeta che racconta Roma dal di dentro e poi ne viene scacciato e deve ripensarla dall'esilio. Nel mio piccolo mi ritrovo nella sua condizione, esserci e non esserci, presenza e nostalgia. Poi c'è quella parola stupenda che usa spesso, errare, che vuol dire sia sbagliare che vagare... Leggere e tradurre Ovidio sotto il suo stesso cielo è un sogno che si avvera".
Da un punto lontano di quel cielo, dietro la meravigliosa sequenza di cupole e tetti che si vede dalla terrazza, si leva una nuvola di fumo scuro e denso: uno dei tanti incendi che in questa estate hanno devastato la periferia romana. "Alla fine del mio libro" conclude Lahiri, "una donna se ne esce con una battuta, apparentemente dal nulla: 'Che città di merda. Ma quant'è bella'".'


- La scrittrice Jhumpa Lahiri racconta Roma, TV2000, 5 ottobre 2022. 

- "Roma ha tante facce. Io seguo Moravia e le scopro coi racconti", Eleonora Barbieri, Il Giornale, 6 ottobre 2022:
'Jhumpa Lahiri, che Roma è la «sua» Roma?
Una Roma complessa, non facile, strepitosa, problematica. Ha tante facce, tanti strati. La città ci sfugge, e sfugge a tutti: non si può definire. Non puoi descrivere Roma in un gesto solo. Per questo, il tentativo di Moravia di farlo attraverso i racconti è geniale: ha raggiunto una prospettiva molto efficace per capire la complessità della città e dei romani. Io ho seguito il suo esempio.
La Roma di oggi rispetto a quella di Moravia?
È ben diversa. Lui raccontava molto anche uno strato sociale, popolare: io prendo questa vena e la esploro, per esempio vado nelle cucine delle trattorie e scopro chi cucina davvero la pasta, chi non vedi ma c'è, e sta cucinando per te. (...) Persone che vengono da fuori e hanno vite precarie a Roma, e non solo per una questione di classe sociale.
Non si sentono a casa?
Vai a Roma e sei romano, un po' come ti succede quando vai a New York, e questo perché la città è così forte che ti ingloba, ti dà un'identità; ma vedo anche le tensioni che ci sono, per esempio fra i romani di una certa età e posizione e chi è lì per lavorare, mettere nuove radici, creare una famiglia. (...) Sono dieci anni che osservo questo incrocio, da una posizione privilegiata diciamo: sono sempre attenta a chi vive ai margini e non parla, perché non è a suo agio a parlare, e con molti di loro condivido una lingua, il bengalese, per cui posso chiedere, fare domande. E poi noto le dinamiche, le mamme al parco, i giovani, i loro gruppi, come quelli sulla scalinata.
La scalinata, che è anche il titolo di un racconto, è centrale nel libro.
Sì. È quella che collega Trastevere a Monteverde Vecchio: abito lì vicino e la faccio venticinque volte al giorno. La scalinata è l'organo principale del libro: il cuore o, se vogliamo, lo stomaco, che credo sia la vera misura del corpo. (...) È il ventre che raccoglie ogni tipo di personaggio: chi è di passaggio, chi è nato/vissuto/morto lì, chi ci vive per un paio d'anni, chi si lamenta del fatto che il mondo non sia più come una volta, chi vorrebbe appartenere ma non può, o non riesce. Gli altri racconti sono un affresco, la scalinata è qualcosa in mezzo alla sala: un luogo di passaggio, ma molto vissuto. Ci sono tanti giovani, perfino una troupe che gira un film.
Ci sono anche le signore romane. Si è trovata subito bene?
Sì e no. Una parte di me si sente totalmente nel mare giusto; eppure, anche no. Sono sempre in bilico.
Nei suoi racconti ci sono storie dure, ma scritte senza retorica o ideologia.
Non scrivo con ideologia. Anche qui seguo Moravia, che diceva che l'ideologia non dovrebbe far parte della letteratura. Certamente tu, come scrittore, puoi avere un'ideologia, e Moravia l'aveva, come anche io, da cittadina del mondo, non sono indifferente a ciò che accade; ma nella scrittura esploro altre cose, l'anima di un personaggio, il suo mondo interiore e, in questo, l'ideologia non c'entra. (...) Come scrittore non puoi giudicare: devi osservare, interpretare, decifrare, mettere sotto una luce qualcosa che, di solito, non vediamo. Uno scrittore decide: mi soffermo qui, cerco di scavare e di dedicare un po' di attenzione a una certa persona, vera o finta che sia.
Incredibilmente, da anni scrive in italiano.
È un caso, una mossa insolita. Ho iniziato un giorno nel diario e, da lì, ne è sorta una esigenza sorprendente che, piano piano, mi ha conquistato. Ho capito che in italiano riesco a raggiungere una parte di me che non raggiungo in inglese: mi sento più libera, più coraggiosa e in grado di sperimentare ma, allo stesso tempo, anche titubante. Un mix eccitante. Una nuova lingua è un filtro e uno strumento insieme, ma l'italiano mi ha aperto un portone importante: cercavo una nuova chiave ed è stata una nuova lingua, questa lingua.
L'ultimo racconto è intitolato Dante Alighieri e sembra autobiografico.
Ci sono elementi della mia vita, anche se non del tutto. Ho osato, certo, prima col titolo e poi con Dante in chiusura. Ma già il mio libro Dove mi trovo era un dialogo con Dante, il suo titolo è il primo verso dell'Inferno, celato: dove mi trovo?, dove vado?, come procedo? È quella questione lì, esistenziale. E poi Dante è a cavallo fra diverse lingue, culture, epoche, e in lui c'è l'esilio, che è il mio tema.
Esilio in che senso?
Non sono importanti tanto i luoghi per me, quanto la condizione dell'esilio, dello straniamento: tutti ci sentiamo così, tutti. Nei miei racconti, anche quelli che, anagraficamente, sono romani, si sentono completamente fuori luogo.
Scrive sia romanzi, sia racconti. Come sceglie?
Ascolto l'essenza della storia e poi cerco di trovare l'involucro giusto. Credo molto nel racconto come forma, che non considero affatto minore rispetto al romanzo: leggi un racconto per avere una certa esperienza, un romanzo per un altro impatto.
Che cosa ama del racconto?
È più vicino alla poesia: puoi gestire meglio la lingua, con maggior precisione. E il lettore non viene interrotto, può leggerlo in un'oretta, e questo mi piace molto. Leggo racconti da sempre, li amo, ho curato anche una antologia di quaranta autori italiani per Guanda e credo che i racconti siano stati molto importanti, anche se, oggi, spesso sono ritenuti desueti, come forma.
Il racconto è bistrattato?
Dappertutto, anche in America. Tutti vogliono un romanzo perché pensano sia più importante, ma è folle, ridicolo. Un romanzo può nascondere i difetti molto meglio, un racconto no: o è riuscito o fallisce, e te ne rendi conto subito. È molto più esigente. Infatti, molti autori hanno paura a scrivere racconti. È una forma che va amata, rispettata e difesa, contro un atteggiamento che è scollato dalla realtà della storia della letteratura'.

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