13 dicembre 2022

RIVER TO RIVER FLORENCE INDIAN FILM FESTIVAL 2022


La 22esima edizione del River to River Florence Indian Film Festival si è svolta dal 6 all'11 dicembre 2022. Fra i titoli in cartellone, segnalo Shabaash Mithu, Devdas, Dobaaraa, Almost Pyaar (pellicola di chiusura) e il cortometraggio The Astronaut and his Parrot di Arati Kadav. Anurag Kashyap ha presenziato, in qualità di ospite d'onore, alle proiezioni di Dobaaraa e Almost Pyaar, rispettivamente il 10 e l'11 dicembre. Dobaaraa si è aggiudicato il premio per il miglior lungometraggio.

RASSEGNA STAMPA/VIDEO

- video Anurag Kashyap ospite d'onore del "River to River" 2022, Elisabetta Vagaggini, InToscana, 9 dicembre 2022. 

- Anurag Kashyap: da Mumbai a Netflix, l'ascesa irresistibile di un outsider, La Nazione, 9 dicembre 2022: '"Dopo che "Black Friday" venne censurato nel mio paese, venni invitato da Marco Muller in qualità di giurato alla Mostra del Cinema di Venezia, dove ho conosciuto Liliana Cavani, Paolo Sorrentino e Luciano Ligabue - ricorda - Da giovane, sono rimasto fulminato dalla visione di 'Ladri di Biciclette' di Vittorio De Sica e 'La meglio gioventù" di Marco Tullio Giordana, a cui mi sono ispirato per la struttura ad episodi di "Gangs of Wasseypur", ma non ho avuto ancora occasione di lavorare con voi: nel 2014 era in cantiere un film con Toni Servillo sul viaggio di Rossellini in India, ma la morte del produttore lasciò il progetto in stand-by".' 


'Almost Pyaar (...) è nato da un incontro con la figlia. “Ha 22 anni ed è molto nota in India come influencer. Io ho 50 anni, non so neanche bene cosa voglia dire aver successo sui social. Il nostro è un paese conservatore, in cui i cambiamenti ci mettono del tempo ad avviarsi. Una volta abbiamo parlato di un suo amico gay e lei mi ha dato del migrante che sta cercando di adeguarsi ai tempi, dicendo che per lei era un amico e basta e che ai giovani non interessa di definire le persone per la loro sessualità. Ha un podcast molto popolare su Spotify e un canale YouTube e Instagram molto seguiti, tanto che ogni tanto mi fermano per parlare di lei, più che di me. I giovani hanno una percezione diversa della vita, per quello con Almost Pyaar ho voluto raccontarli. Per loro è normale dormire insieme fra amici di sesso diverso, mentre ai miei tempi non capitava. Loro si fidano, sono sereni e per capirli meglio ho raccontato una storia di due coppie, una a Londra e una in un paesino indiano di montagna, interpretata dagli stessi attori”. (...) Ha iniziato con il cinema trasferendosi pieno di speranze dal suo paese nell’Uttar Pradesh nella capitale del cinema indiano, Mumbai, senza conoscere nessuno e cavandosela per mesi con espedienti. “All’epoca l’industria era in mano a poche famiglie, ero un outsider e ho coinvolto nei miei film giovani attori e outsider come me che sono diventati la mia famiglia. Ora in molti hanno successo. Per me è importante cambiare, non essere etichettato. Tutti volevano che continuassi a raccontare storie di gangster, ma voglio sempre fare altro. Il successo distrugge molti registi e molte star, che fanno sempre le stesse cose per rispondere alle aspettative del pubblico. Anche nei miei film di genere inserisco sempre riferimenti al tempo e al luogo in cui racconto le mie storie: l’India dei problemi sociali, delle diseguaglianze e discriminazioni. (...) Poi c’è la censura che crea problemi, devi andare avanti facendoti furbo. Per esempio ho girato un remake, Dobaaraa, perché avevo bisogno di fare un film ‘tranquillo’, dopo aver avuto difficoltà con il governo. Abbiamo lavorato sulla sceneggiatura dell’originale quando ancora non era uscito, tanto che alla fine il nostro è un film diverso”.'


'Sulla genesi di Almost Pyaar Kashyap racconta che un ruolo importante è stato giocato da sua figlia, Aaliyah. “L’india è ancora un paese molto conservatore, per quanto sia in transizione. Un esempio: l’omosessualità viene accettata, ma in modo molto accondiscendente, quasi compassionevole. Le persone della mia generazione si sentono progressiste solo perché conoscono il significato della sigla Lgbtqa+. I giovani invece vivono in un mondo completamente diverso, sembrano aver risolto tutti i tabù relazionali e legati alla sessualità che per noi sono ancora così problematici. Quello che per noi è promiscuità, per loro sono contesti tranquilli vissuti con sicurezza. Mia figlia, che lavora come influencer, mi dice spesso che in questo nuovo mondo sono come un migrante, devo affrontare un viaggio per raggiungerlo. Ho girato “Almost Pyaar” per intraprendere questo viaggio, per capire meglio le nuove generazioni e gli antagonisti che vi si oppongono: i padri, le madri, ma soprattutto il sistema patriarcale, in un piccolo villaggio dell’India come nella metropoli inglese. “Almost Pyaar” è un film su ragazze e ragazzi, e sono loro i protagonisti assoluti. Ma è anche un film dove la musica è protagonista, musica elaborata con gli stessi protagonisti per ottenere una soundtrack che fosse giovane davvero, come loro”. Sulla relazione con Netflix racconta: “È iniziata nel 2012, quando il mio film “Gangs of Wasseypur” è stato trasformato in una miniserie per gli Stati Uniti ed ha avuto un successo enorme. Netflix mi ha contattato su Facebook e da lì siamo partiti con “Sacred Games”. Devo dire che la piattaforma mi sostiene moltissimo, dopo l’uscita in sala acquisiscono tutti i miei film. Anche “Almost Pyaar” sarà lì a breve”. Ci sarà una terza stagione di “Sacred Games”? “Purtroppo no - spiega Kashyap - mi sarebbe piaciuto, ma non è prevista al momento”. Riguardo al rapporto col cinema italiano, oltre alla rivelazione dei film di De Sica, Kashyap aggiunge: “Nel 2009 ho partecipato alla giuria della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia su invito di Marco Müller, e lì ho conosciuto diversi cineasti: Liliana Cavani, Gabriele Mainetti, Paolo Sorrentino. Addirittura nel 2014 avrei dovuto girare un film indo-italiano sul viaggio di Roberto Rossellini in India con Servillo protagonista, ma il progetto è in stop a causa di questioni produttive. Tra i registi contemporanei in Italia quello con cui di più vorrei lavorare è Mainetti: il suo “Lo chiamavano Jeeg Robot” è uno dei migliori film di supereroi di ogni tempo per me”. Kashyap è un autore capace di passare dal gangster movie alla commedia romantica, dall’horror al prodotto seriale. “Guardo moltissimi film di ogni genere e tutto ha influenza su di me. Non voglio rimanere chiuso in una specifica categoria e diventare “il regista di film d’azione”, o “il regista di polizieschi”. Dopo il successo di “Gangs of Wasseypur” da me ci si aspettava che avrei continuato su quella traccia, ma proprio per questo ho preferito cambiare. Non voglio rimanere incollato a un’aspettativa specifica, perché sono proprio queste a rovinare gli artisti”. Il genere inoltre è un modo per trattare temi altrimenti difficilmente approcciabili: “In “Almost Pyaar” oltre alla questione del patriarcato si tocca il tema della convivenza tra indù e mussulmani, tema molto caldo in India. Per questo il film ha richiesto del tempo per essere sdoganato dalla censura. Per me è importantissimo riflettere sul mio paese quando faccio film, e per farlo utilizzo lo strumento del genere, che è anche un modo di aggirare certi blocchi”.'

Vedi anche: River to River Florence Indian Film Festival 2012. Kashyap era intervenuto anche in quell'edizione della manifestazione.

(Fotografie: profilo Facebook del festival).

18 novembre 2022

AMITAV GHOSH: LA MALEDIZIONE DELLA NOCE MOSCATA


Un mese fa Amitav Ghosh era in Italia per presentare il suo ultimo lavoro, La maledizione della noce moscata, pubblicato da Neri Pozza Editore (clicca qui). Vi segnalo la recensione del volume redatta da Elena Spandri e pubblicata da Il Manifesto il 13 novembre 2022: Amitav Ghosh, in ascolto di un seme a forma di pianeta. Di seguito un corposo estratto:

'Chi è familiare con la scrittura di Amitav Ghosh sa bene che l’invenzione narrativa, alimentata da una approfondita ricerca storica, antropologica e scientifica, è da sempre il perno della sua militanza critica. Attraverso storie appassionanti di personaggi e luoghi, lo scrittore più cosmopolita della diaspora indiana ammette i lettori nel proprio laboratorio, per coinvolgerli ma soprattutto per scuoterne le certezze e allargarne le prospettive sulle grandi questioni del nostro tempo. Il saggio appena uscito per Neri Pozza, La maledizione della noce moscata, (...) alza ulteriormente la sfida, parlando di cambiamento climatico in rapporto al colonialismo e al nuovo ordine globale, attraverso la storia di una pianta. 

Recluso tra le quattro pareti dello studio di Brooklyn «in un vago stato di intontimento e dissociazione», mentre la moglie assiste il padre malato in Virginia e il coronavirus ostenta il suo potere sull’umanità, Ghosh ritrova per caso degli appunti di un viaggio in Indonesia nel corso del quale si era imbattuto in un volume ottocentesco sulla colonizzazione delle isole Banda, che riportava un massacro della popolazione locale perpetrato dalla Compagnia olandese delle Indie orientali nel XVII secolo. Non conoscendo l’olandese, comincia a leggere il testo compulsando le parole con un programma di traduzione; fino a quando, conquistato dall’argomento, decide di contattare uno storico dell’Asia che gli fornisce un glossario dei termini arcaici e dei loro corrispettivi moderni. 

«Ben presto fu come se due entità non umane, internet e il coronavirus, entrambi operanti su scala globale, si fossero riunite per creare un portale fantasmatico e trasportarmi, attraverso lo spirito di un olandese defunto da secoli, alle isole Banda in quella notte del 21 aprile 1621». Da quel momento epifanico, l’albero della noce moscata diventa il fil rouge di una estesa riflessione sui nessi tra la colonizzazione dell’Asia e delle Americhe e il trauma del cambiamento climatico, ovvero la maledizione di un modello di sviluppo capitalistico basato su un «individualismo patologico». (...)

A fronte della corsa allo spazio caldeggiata dai magnati della terra nell’intento di sfuggire all’incipiente estinzione della specie umana, la suggestiva vicenda di questa pianta esotica e resiliente diventa una «parabola di umiltà» attraverso cui predisporre la mente all’ascolto di voci non umane, silenziate da secoli di «capitalismo estrattivista». Finché Gaia, la «Terra vivente», non si è ridotta a mero «deposito inerte di risorse». (...) Con toni sempre più perentori e apocalittici, il libro mette al bando la concezione meccanicistica della natura ereditata dal razionalismo occidentale e sollecita tutti a un atto di fede nella possibilità di recuperare quella percezione del vitalismo terrestre che è stata cancellata dalla memoria collettiva, dopo secoli di «terraformazione» coloniale, sopravvivendo soltanto presso culture -  come quella dei nativi americani - brutalmente sospinte ai margini della modernità.

«Ciò che la Terra ha realmente esaurito non sono le risorse ma il significato. Sconfitta, inerte, passiva, la Terra non è più in grado di nobilitare, né dilettare né produrre nuove aspirazioni. L’unica cosa che può produrre nelle mente di chi crede di averla conquistata è il disprezzo che nasce dalla familiarità». Non stupisce la nettezza con la quale il saggio imputa alla cultura protestante e alla letteratura inglese un ruolo determinante nella diffusione dell’idea che «l’empatia e la socievolezza sono garbate finzioni che non reggono in circostanze estreme, quando emergono realtà primordiali quali l’egoismo e l’aggressività». 

Tuttavia, il senso di questa scrittura va oltre la denuncia dei misfatti della Storia: la noce moscata, infatti, non compare soltanto nella veste di una merce preziosa che ha scatenato un genocidio ed è sopravvissuta all’agrobusiness imposto dagli ingegneri europei su un minuscolo lembo di Asia. Nelle esperte mani di Ghosh, la vicenda della spezia più ambita del diciassettesimo secolo diventa traccia vocale della pianta dalla quale è derivata, una traccia che l’autore ha colto e tradotto nel linguaggio umano, dando seguito a un programma di re-incantamento della natura attraverso l’immaginazione creativa (annunciato nella Grande cecità e già realizzato nelle opere recenti), che è tanto necessario al benessere collettivo quanto ad alto rischio di fraintendimento e di cooptazione da parte di «ecofascismi» che utilizzano l’ambientalismo per rafforzare le gerarchie sociali e rendere chi sta ai margini sempre più invisibile. 

Ghosh ne è pienamente consapevole, ma è altrettanto convinto che valga la pena correre il rischio. Cresciuto nell’alveo di una cultura politeistica che concepisce gli dei «come intermediari spirituali tra l’umano e il non umano», e in aperta polemica con un’Anglosfera che ha fatto un dogma «dell’idea che l’egoistico conseguimento degli interessi individuali sia un tratto universale della natura umana», Ghosh (...) riesce a far coesistere materialismo e spiritualismo, pragmatismo e vitalismo, con la stessa disinvoltura con la quale abita molteplici mondi'. 

Progetto Scienza 2022 Le Nostre Domande

Aggiornamento del 16 giugno 2023: nel novembre 2022 lo scrittore partecipò alla prima puntata, registrata all'università di Padova, del programma Progetto Scienza 2022 Le Nostre Domande di Rai Cultura. Video.

09 novembre 2022

JHUMPA LAHIRI: RACCONTI ROMANI


Da un paio di mesi è in distribuzione in libreria il volume Racconti romani, di Jhumpa Lahiri, pubblicato da Guanda. Nel sito dell'editore si legge:
'Una Roma mista e metafisica, contemporanea ma eternamente sospesa fra passato e futuro, è la vera protagonista, non l’ambientazione, di questa raccolta. Nove racconti, alcuni di respiro romanzesco, in cui riconosciamo una città contraddittoria che ridefinisce sempre se stessa, trasformandosi di generazione in generazione in un amalgama, in un viavai ibrido di stranieri e romani che si sentono comunque sempre tutti fuori posto. Segnati da un ambiente al contempo ospitale e ostile, i personaggi che abitano questi racconti vivono momenti di epifania ma anche violente battute di arresto. (...) L’andamento della scrittura è riconducibile agli autori italiani del Novecento che Jhumpa Lahiri conosce e profondamente ama, a partire da Moravia che riecheggia nel titolo. Ma i temi di questo libro, il quinto che l’autrice scrive direttamente in italiano, sono tutti suoi: lo sradicamento, lo spaesamento, la ricerca di un’identità e di una casa, il sentimento di essere stranieri e soli ma, proprio per questo, in lotta e vitali'.

RASSEGNA STAMPA/VIDEO

- Jhumpa Lahiri racconta Roma. In italiano, Michele Gravino, Il Venerdì, 26 agosto 2022: 
'Quando, nel 2014, stava per uscire In altre parole, il primo libro di Jhumpa Lahiri scritto direttamente in italiano, un giornale titolò: "Jhumpa ha un amante". L'amante era, appunto, la lingua italiana, oggetto di un colpo di fulmine improvviso quanto totalizzante per questa scrittrice nata nel 1967 a Londra da genitori bengalesi e cresciuta negli Stati Uniti, che di lingue ne aveva già due: il bengalese dei suoi genitori e naturalmente l'inglese, in cui pubblicava con enorme successo. Il suo esordio, L'interprete dei malanni, aveva vinto il Pulitzer nel 2000, dal romanzo L'omonimo Mira Nair aveva tratto un film a cavallo tra Hollywood e Bollywood, la raccolta Una nuova terra aveva debuttato al primo posto nella classifica dei bestseller del New York Times.
Poi, giusto dieci anni fa, l'arrivo a Roma per un periodo di studio all'American Academy: "Voglio vivere almeno un anno in Italia, ho pregato mio marito, solo uno" racconta lei oggi. E una vecchia passione (Lahiri ha un dottorato in studi rinascimentali) si trasforma in bruciante innamoramento, fino a farle decidere di prendere casa qui (l'appartamento con terrazza sulle pendici del Gianicolo in cui la intervistiamo), e di trascorrervi i mesi in cui è libera dal suo lavoro di docente universitaria negli Stati Uniti. Ma l'Italia per lei non è un banale buen retiro. (...) No, Jhumpa si innamora soprattutto della lingua: la sceglie, la studia, la fa sua. Oggi, spiega, l'italiano in cui conversiamo non è più un travolgente amante - come in quel malizioso vecchio titolo - ma il partner di una relazione stabile, "senza la fatica, la noia, la frustrazione che possono complicare un matrimonio. È davvero la mia metà, anzi, come si dice in inglese, my better half, la mia metà migliore".
Da quel 2014 Jhumpa Lahiri scrive e pubblica solo nella nostra lingua: in inglese sono uscite solo traduzioni (di libri suoi e altrui, soprattutto Domenico Starnone) e un'antologia di racconti italiani del Novecento. Dopo i saggi di In altre parole e Il vestito dei libri, il romanzo-memoir Dove mi trovo e le poesie di Il quaderno di Nerina,  il 13 settembre esce (per Guanda, suo storico editore) il nuovo Racconti romani. Il titolo, è, naturalmente, un omaggio ad Alberto Moravia e alle sue due omonime raccolte, pubblicate tra il 1954 e il '59. "Moravia è stato il primo autore che mi ha insegnato a leggere in italiano, il Virgilio che mi ha accompagnato alla scoperta di questo universo letterario" spiega Lahiri. "Di lui amo il linguaggio puro, preciso, e anche la scelta della forma breve per comporre un gigantesco affresco della città, della sua vita quotidiana, delle tensioni tra classi sociali. Il racconto è un genere spesso poco apprezzato, ma io trovo sia molto adatto a Roma: qui tutti raccontano, anche da un incontro per strada di due minuti vai sempre via con una piccola storia, un regalo da riportare a casa".
Nei suoi racconti Moravia diede voce ai romani dell'immediato dopoguerra, proletari o piccoloborghesi alle prese con le difficoltà della ricostruzione e i primi segnali della Dolce vita e del Boom. Lahiri sceglie di raccontare la città con gli occhi di chi, come lei, non le appartiene pienamente, ma l'ha in qualche modo scelta: stranieri soprattutto, migranti di prima o seconda generazione, turisti appena sbarcati, expat benestanti destinati a ripartire al termine dell'anno accademico o dell'incarico in un'organizzazione internazionale. Nell'ultimo racconto, Dante Alighieri, una giovane americana di probabili origini indiane - ma l'ascendenza etnica dei personaggi non è mai esplicitata, solo sottintesa - sceglie per un caso fortuito l'italiano come materia di studi e finisce per diventarne una specialista, dividendosi tra le due sponde dell'Atlantico. "Ma non è l'unica storia autobiografica" spiega l'autrice. "C'è una parte di me in quasi tutti i protagonisti del libro. Sono persone che si sentono sempre un po' fuori luogo, cercano una casa o magari hanno troppe case, troppe vite".
"E comunque per me sono tutti romani" continua. "Roma è questo, una metamorfosi continua, un flusso in cui immergersi, e l'italiano mi dà il ritmo per seguirlo, paradossalmente in inglese sono più misurata, ho più paura". La città è raccontata con grande economia di mezzi, i luoghi quasi mai nominati, i capisaldi della Grande Bellezza solo sfiorati, a vantaggio di angoli meno noti ma più vissuti dall'autrice. Come la Scalea del Tamburino, la rampa di 126 gradini che collega Monteverde con Trastevere, proprio sotto la sua casa romana: Lahiri la mette al centro di una lunga sequenza di racconti, con il suo strepitoso panorama e i cocci di bottiglie di birra - residui dei ritrovi serali dei giovani della zona - che minacciano i piedi di chi vi si avventura.
Già, perché l'innamoramento non impedisce alla scrittrice di raccontare anche una Roma sgradevole, inospitale, a tratti violenta. "È un lato che esiste, come in tutte le grandi città, anche se tanti americani preferiscono averne una proiezione falsa, idilliaca. Quante volte mi sono sentita dire: ma in Italia non può succederti niente di male! No, certo, se ci vai solo in vacanza". Così, i suoi racconti esplorano anche le meschinità di certa borghesia intellettuale, espongono i piccoli e grandi razzismi quotidiani subìti dai migranti. "Mi interessa molto l'esperienza di chi si trasferisce qui e cerca di radicarsi" spiega; "tipicamente arrivano prima i maschi, poi fanno venire la moglie, solo più tardi i figli, è un processo lungo e complicato. Io ho potuto anche osservarlo da vicino, incontrando gli stranieri che lavorano al mercato del quartiere, riuscendo a entrare in contatto anche grazie al fatto che parlo bengalese. In fondo continuo a lavorare sui temi dei miei primi libri: ho solo voluto cambiare ambientazione e prospettiva rispetto alle storie degli indiani trasferiti in America come i miei familiari. Ma non ho messaggi da dare, anche in questo seguo Moravia: la letteratura non è politica, se riesco a far riflettere, a spostare qualche punto di vista è bene, ma non ho un'agenda ideologica, non è quello il mio obiettivo".
Dopo alcuni anni a Princeton, Jhumpa Lahiri tornerà all'università dove ha studiato, il Barnard College della Columbia di New York, per insegnare scrittura creativa, italiano e traduzione. Ma prima trascorrerà a Roma un anno sabbatico: "Dovrò fare un po' di promozione per i Racconti" dice, "ma poi mi dedicherò completamente a Ovidio". Assieme a una classicista, ha cominciato a tradurre le Metamorfosi: il lavoro sarà in inglese, ma lei prende appunti in italiano e usa il vocabolario IL, come generazioni di liceali. "Ovidio è un punto di riferimento fondamentale per me: il poeta che racconta Roma dal di dentro e poi ne viene scacciato e deve ripensarla dall'esilio. Nel mio piccolo mi ritrovo nella sua condizione, esserci e non esserci, presenza e nostalgia. Poi c'è quella parola stupenda che usa spesso, errare, che vuol dire sia sbagliare che vagare... Leggere e tradurre Ovidio sotto il suo stesso cielo è un sogno che si avvera".
Da un punto lontano di quel cielo, dietro la meravigliosa sequenza di cupole e tetti che si vede dalla terrazza, si leva una nuvola di fumo scuro e denso: uno dei tanti incendi che in questa estate hanno devastato la periferia romana. "Alla fine del mio libro" conclude Lahiri, "una donna se ne esce con una battuta, apparentemente dal nulla: 'Che città di merda. Ma quant'è bella'".'


- La scrittrice Jhumpa Lahiri racconta Roma, TV2000, 5 ottobre 2022. 

- "Roma ha tante facce. Io seguo Moravia e le scopro coi racconti", Eleonora Barbieri, Il Giornale, 6 ottobre 2022:
'Jhumpa Lahiri, che Roma è la «sua» Roma?
Una Roma complessa, non facile, strepitosa, problematica. Ha tante facce, tanti strati. La città ci sfugge, e sfugge a tutti: non si può definire. Non puoi descrivere Roma in un gesto solo. Per questo, il tentativo di Moravia di farlo attraverso i racconti è geniale: ha raggiunto una prospettiva molto efficace per capire la complessità della città e dei romani. Io ho seguito il suo esempio.
La Roma di oggi rispetto a quella di Moravia?
È ben diversa. Lui raccontava molto anche uno strato sociale, popolare: io prendo questa vena e la esploro, per esempio vado nelle cucine delle trattorie e scopro chi cucina davvero la pasta, chi non vedi ma c'è, e sta cucinando per te. (...) Persone che vengono da fuori e hanno vite precarie a Roma, e non solo per una questione di classe sociale.
Non si sentono a casa?
Vai a Roma e sei romano, un po' come ti succede quando vai a New York, e questo perché la città è così forte che ti ingloba, ti dà un'identità; ma vedo anche le tensioni che ci sono, per esempio fra i romani di una certa età e posizione e chi è lì per lavorare, mettere nuove radici, creare una famiglia. (...) Sono dieci anni che osservo questo incrocio, da una posizione privilegiata diciamo: sono sempre attenta a chi vive ai margini e non parla, perché non è a suo agio a parlare, e con molti di loro condivido una lingua, il bengalese, per cui posso chiedere, fare domande. E poi noto le dinamiche, le mamme al parco, i giovani, i loro gruppi, come quelli sulla scalinata.
La scalinata, che è anche il titolo di un racconto, è centrale nel libro.
Sì. È quella che collega Trastevere a Monteverde Vecchio: abito lì vicino e la faccio venticinque volte al giorno. La scalinata è l'organo principale del libro: il cuore o, se vogliamo, lo stomaco, che credo sia la vera misura del corpo. (...) È il ventre che raccoglie ogni tipo di personaggio: chi è di passaggio, chi è nato/vissuto/morto lì, chi ci vive per un paio d'anni, chi si lamenta del fatto che il mondo non sia più come una volta, chi vorrebbe appartenere ma non può, o non riesce. Gli altri racconti sono un affresco, la scalinata è qualcosa in mezzo alla sala: un luogo di passaggio, ma molto vissuto. Ci sono tanti giovani, perfino una troupe che gira un film.
Ci sono anche le signore romane. Si è trovata subito bene?
Sì e no. Una parte di me si sente totalmente nel mare giusto; eppure, anche no. Sono sempre in bilico.
Nei suoi racconti ci sono storie dure, ma scritte senza retorica o ideologia.
Non scrivo con ideologia. Anche qui seguo Moravia, che diceva che l'ideologia non dovrebbe far parte della letteratura. Certamente tu, come scrittore, puoi avere un'ideologia, e Moravia l'aveva, come anche io, da cittadina del mondo, non sono indifferente a ciò che accade; ma nella scrittura esploro altre cose, l'anima di un personaggio, il suo mondo interiore e, in questo, l'ideologia non c'entra. (...) Come scrittore non puoi giudicare: devi osservare, interpretare, decifrare, mettere sotto una luce qualcosa che, di solito, non vediamo. Uno scrittore decide: mi soffermo qui, cerco di scavare e di dedicare un po' di attenzione a una certa persona, vera o finta che sia.
Incredibilmente, da anni scrive in italiano.
È un caso, una mossa insolita. Ho iniziato un giorno nel diario e, da lì, ne è sorta una esigenza sorprendente che, piano piano, mi ha conquistato. Ho capito che in italiano riesco a raggiungere una parte di me che non raggiungo in inglese: mi sento più libera, più coraggiosa e in grado di sperimentare ma, allo stesso tempo, anche titubante. Un mix eccitante. Una nuova lingua è un filtro e uno strumento insieme, ma l'italiano mi ha aperto un portone importante: cercavo una nuova chiave ed è stata una nuova lingua, questa lingua.
L'ultimo racconto è intitolato Dante Alighieri e sembra autobiografico.
Ci sono elementi della mia vita, anche se non del tutto. Ho osato, certo, prima col titolo e poi con Dante in chiusura. Ma già il mio libro Dove mi trovo era un dialogo con Dante, il suo titolo è il primo verso dell'Inferno, celato: dove mi trovo?, dove vado?, come procedo? È quella questione lì, esistenziale. E poi Dante è a cavallo fra diverse lingue, culture, epoche, e in lui c'è l'esilio, che è il mio tema.
Esilio in che senso?
Non sono importanti tanto i luoghi per me, quanto la condizione dell'esilio, dello straniamento: tutti ci sentiamo così, tutti. Nei miei racconti, anche quelli che, anagraficamente, sono romani, si sentono completamente fuori luogo.
Scrive sia romanzi, sia racconti. Come sceglie?
Ascolto l'essenza della storia e poi cerco di trovare l'involucro giusto. Credo molto nel racconto come forma, che non considero affatto minore rispetto al romanzo: leggi un racconto per avere una certa esperienza, un romanzo per un altro impatto.
Che cosa ama del racconto?
È più vicino alla poesia: puoi gestire meglio la lingua, con maggior precisione. E il lettore non viene interrotto, può leggerlo in un'oretta, e questo mi piace molto. Leggo racconti da sempre, li amo, ho curato anche una antologia di quaranta autori italiani per Guanda e credo che i racconti siano stati molto importanti, anche se, oggi, spesso sono ritenuti desueti, come forma.
Il racconto è bistrattato?
Dappertutto, anche in America. Tutti vogliono un romanzo perché pensano sia più importante, ma è folle, ridicolo. Un romanzo può nascondere i difetti molto meglio, un racconto no: o è riuscito o fallisce, e te ne rendi conto subito. È molto più esigente. Infatti, molti autori hanno paura a scrivere racconti. È una forma che va amata, rispettata e difesa, contro un atteggiamento che è scollato dalla realtà della storia della letteratura'.

24 ottobre 2022

WHEN THE HINDU RIGHT CAME FOR BOLLYWOOD


Vi segnalo l'articolo When the Hindu right came for Bollywood, di Samanth Subramanian, pubblicato da The New Yorker il 17 ottobre 2022. Di seguito vi propongo un corposo estratto:

'In the summer of 2019, the actor Mohammed Zeeshan Ayyub won a role on “Tandav,” an Indian political drama being produced by Amazon Prime. The title was clever. In Hindu lore, the tandav is the dance of life and death performed by Shiva, the god whose terrible powers can end the universe - a neat metaphor for the dark, intricate maneuvers of national politics. When Ayyub read the show’s script, he spied a handful of allusions to the India around him. In one episode, policemen barge onto a university campus to arrest a Muslim student leader. The scene recalled the government’s persecution of popular student politicians and, more broadly, the hostility toward Muslims that marks the Hindu nationalism of Prime Minister Narendra Modi and his Bharatiya Janata Party (B.J.P.). The B.J.P. had just begun its second straight term in power. (...) 
Ayyub played another student leader, a tyro named Shiva Shekhar. (...) In the first scene that Ayyub shot, Shiva is onstage in a student skit, playing his namesake deity: a Shiva in a suit, newly risen from a cosmic nap, wondering how to be relevant once more. Tweet about something controversial, an accomplice proposes - something about how the university’s students, forever demanding azaadi, or freedom, from their government’s oppression, are “anti-nationals,” traitors to India. The audience chuckles; the B.J.P. rants in this vein so often that it has turned into a trope. But Shiva is surprised. How can a call for freedom be controversial? “Azaadi?” he exclaims. “What the...?” The last word is drowned out by the shriek of mike feedback. (...) 
When lawyers for Amazon Prime and an external law firm first reviewed “Tandav” ’s scripts - a customary procedure - Shiva’s line had been a full, florid “What the fuck?”. One of the lawyers told me that his team had urged the showrunners to prune the expletive, but that there was more concern about “Tandav” coming off as anti-B.J.P. One character, the lawyer remembered, “was a politician depicted as a conservative, pushing for the privatization of education, which is one of the Modi government’s issues. We always said, Do it in a way where you can’t match the incidents onscreen to real incidents.” (Amazon broadly disputed this characterization.) 


Drawing inspiration from bleak headlines - the religious lynchings, the cronyism, the autocratic acts of the state - had become a fraught enterprise. The B.J.P. and its supporters were growing intolerant of contrary views and criticism, and they were liable to react badly - through social-media attacks, targeted harassment by government agencies, or endless litigation. Outright violence was rarer, although its threat was never distant. (...)
When “Tandav” premièred, in January, 2021, Ayyub (...) on Twitter, (...) noticed that he was being tagged frequently - sometimes by people praising him, but mostly amid heaps of abuse. In cities and towns far from Mumbai, people filed police complaints, claiming that the portrayal of a foulmouthed Shiva was an insult to Hinduism. (A B.J.P. official told me that, in the large family of Hindu-nationalist organizations, “an enthusiastic worker can always be found who will file these complaints to keep his bosses happy.”) Such cases usually go nowhere, but in the B.J.P.’s India, where the police and the courts are pliant, it’s hard to be sanguine. Recently, a Muslim journalist was imprisoned for three weeks because someone complained that a four-year-old tweet derided Hinduism. The account that reported him was anonymous, had one tweet and one follower on the day of the arrest, and went offline thereafter.
To be safe, Amazon cut the skit scene from “Tandav” a few days after the show began streaming. But the storm raged on. A senior B.J.P. leader wrote to Amazon, accusing its “ideologically motivated employees” of running “vicious programming.” Amazon petitioned India’s Supreme Court to protect the show’s director and producers from arrest while the cases were being heard; the Court refused to grant this reprieve. That felt unprecedented, Ayyub said, and it tipped everyone into a state of high alarm. An Amazon employee who worked on “Tandav” remembers how taxing the experience was. “It took over our days, nights, weeks, months,” he said. “And we were all working from home, because this was peak covid. So I was on calls with the Amazon guys in the U.S. late night my time, early morning my time, because the company wanted to protect its employees.” All the discussions, he said, were about “how to keep our people safe” - but for a few months it really looked as if an Amazon executive might go to prison for green-lighting a cheesy TV show.


Filmmaking thrives in plenty of other cities in India, but “Bollywood” has become shorthand for Indian cinema as a whole, and for the thousand or so movies that the country releases annually. For nearly a century, Bollywood has also worn the warm, self-satisfied gloss of being a passion that unifies a country of divisions. Not only are its audiences as mixed as India itself, filmmakers will say, but Bollywood is a place where caste and religion don’t matter. The most piously presented proof of this is the fact that, in a Hindu-majority country, a Muslim man named Shah Rukh Khan has been the supreme box-office star for decades.
Even if Bollywood possesses this liberal fibre, the rightward swing in Indian politics has gnawed away at it. In Mumbai, people divide recent history into pre-“Tandav” and post-“Tandav” periods, reading the show’s fate - its bitter legal battles, its suspended second season - as a lesson in what can and cannot be said in Modi’s India. Their nervousness manifests in absurdities - in, for example, how Amazon Prime now discourages characters who share their names with Hindu deities - but also in decisions to put audacious film and TV projects into cold storage. Other filmmakers embrace genres that match the B.J.P.’s tastes: dubious historical epics that glorify bygone Hindu kings; action films about the Indian Army; political dramas and bio-pics, dutifully skewed. These productions all draw from the B.J.P.’s roster of stock villains: medieval Muslim rulers, Pakistan, Islamist terrorists, leftists, opposition parties like the Indian National Congress. Through Bollywood, India tells itself stories about itself. Many of those stories are now starkly different, in lockstep with the right wing’s bigotry.


Governments have tried to control Indian cinema in the past - mostly through the Central Board of Film Certification (C.B.F.C.), a state authority that can order alterations or essentially ban movies by refusing to certify them. But the B.J.P.’s disdain for Bollywood registers as something deeper - as an echo, in fact, of its animus toward the Congress and other rival parties. When Modi came to power, in 2014, he decried national politics as an élite club: upper-class, upper-caste, English-speaking politicians, activists, and journalists, all cozied up to one another in the plush pockets of central Delhi. In the eyes of the B.J.P., Bollywood, too, is full of liberals disconnected from the real India. And if the film industry is full of “nepo kids” - the children of actors, producers, and directors - then Rahul Gandhi, the Congress’s aspirant Prime Minister and the son, grandson, and great-grandson of earlier Prime Ministers, is the foremost nepo kid of all. (...)
The B.J.P. began with small, typical political moves. In 2015, it appointed a B-movie actor, who was also a longtime Party member, to lead a prestigious, state-run filmmaking institute [credo l'autore si riferisca a Gajendra Chauhan, che guidò il Film and Television Institute of India dal 2015 al 2017]. When a C.B.F.C. chair quit, citing coercion by the government, she was replaced by Pahlaj Nihalani, a director who’d made a campaign video for Modi. (...)
The B.J.P. exhibited another skill as well: an ability to whip up its base - its Internet bruisers, rank-and-file cadre, and ideological allies - into a frenzy so coordinated that it came to resemble popular sentiment. When Aamir Khan (...) admitted, in 2015, that he was worried about growing intolerance in India, a social-media backlash began against Snapdeal, an e-commerce platform that Khan had endorsed on billboards and in TV spots. Within months, Snapdeal decided not to renew his contract; even this year, Khan pleaded with audiences not to spurn a new film because of his past remarks. (...)


Ignoring the mob felt increasingly unwise. In 2016, Sanjay Leela Bhansali (...) started making “Padmaavat.” Bhansali was dramatizing a legend: the story of Padmavati, a Hindu queen from the Rajput caste, who is so renowned for her beauty that Alauddin Khilji, the Sultan of Delhi, attacks her husband’s kingdom to abduct her. Bhansali shot “Padmaavat” with his usual grandiosity. (...) Toward the end, Padmavati and her handmaidens are besieged by Khilji’s army. Instead of submitting, they dress in red and stream through the palace, like blood through an artery, to leap into a pit of fire - a happy ending, in the moral universe of the Hindu right. Khilji is portrayed as half-mad, lustful, and a committed carnivore, stereotypes of the Indian Muslim brought to life.
Before the film’s release, though, a rumor leaked of a love scene between Padmavati and Khilji. This, it appeared, was too great a slight against Hindu honor. A B.J.P. politician announced a reward for beheading Deepika Padukone, who played Padmavati. A posse of young, angry Rajput men stormed onto the film’s set, found Bhansali, and roughed him up; then they destroyed film equipment and, in a later incident, burned down part of the set. According to Bhansali, he had to finish shooting “Padmaavat” under the protection of fifty-two policemen. “At one point, I thought, Enough. Change my profession. I can’t make films anymore,” he said later.
The B.J.P. often ascribes these events to fringe elements or faceless Hindu “patriots.” But the number of such incidents makes filmmakers assume that they’re seeing a bigger transformation, in which the average member of their audience now truly likes everything the B.J.P. likes, and abhors everything it abhors. (...)


“The Kashmir Files” has proved particularly vexing. Released earlier this year, the movie purports to be based on true events: the brutal eviction, beginning in 1989, of tens of thousands of Hindus from the Muslim-majority valley of Kashmir. At least two hundred Hindus were killed, according to government data, but the movie inflates the number to four thousand. Armed insurgents were responsible, but, implicitly or explicitly, the film blames many others for enabling the tragedy and for lying about it afterward. Unsurprisingly, they include some of the B.J.P.’s pet antagonists: leftist university professors, the Congress. “The Kashmir Files” has already triggered a riot, and one B.J.P. leader given to casual calls to shoot “anti-nationals” urged his Twitter followers to watch the film “so that there is no Bengal Files, Kerala Files, Delhi Files tomorrow.” Modi praised the film as another bursting of the liberal bubble; B.J.P. leaders distributed free tickets. (...)

In Mumbai, the quotient of Bollywood celebrity is highest in Bandra, a western suburb shaped like a piece in a jigsaw puzzle. The stars who appear elsewhere in the city on movie posters reside here, amid narrow, winding roads, weathered Portuguese churches, and chic bars that they can never visit. Salman Khan (...) lives in the same apartment building where he and his two brothers (...) grew up. Not far away, the actors Kareena Kapoor and Saif Ali Khan, the children of stars themselves, occupy several floors of an apartment block. (...)
Shah Rukh Khan lives with his family in a villa the size of a small hotel, set back from a pair of heavy gates. Above a wall surrounding the compound, Khan has erected a black metal fence with a platform, where he sometimes materializes, in sunglasses, to greet the fans thronging the sidewalk to glimpse him. The pavement is never empty; even late at night, returning to my hotel, I’d see a few straggling devotees taking selfies, talking quietly, or just gazing at Khan’s house in the dark. In those moments, nothing demarcated the gulf between their worlds - between fan and celebrity, outsider and insider - more vividly than the black metal fence.


One morning, a man (...) joined me at my hotel for breakfast. (...) I’ll call him Ramesh, because although he belongs to the Rashtriya Swayamsevak Sangh, the mother ship of the B.J.P. and other Hindu-nationalist groups, he was keen to stress that he was meeting me in a personal capacity. The R.S.S., a volunteer organization that’s nearly a hundred years old, isn’t a political party. It’s the custodian of a belief that India is, first and foremost, a land for Hindus; it aspires so much to a literally muscular Hinduism that its members often receive paramilitary training. Mahatma Gandhi’s assassin was once a proud R.S.S. man. Modi joined the R.S.S. when he was young, as did many other B.J.P. leaders. Ramesh denied, though, that the R.S.S. wields any undue influence over the government. “It’s like there’s a college - let’s say, Harvard,” he said. “A hundred students of Harvard become senators in the U.S. Now, every time they go to their professors to ask something, would you say Harvard runs the government?” He framed this as a rhetorical question, but I suspect that we had different answers in mind.
In 2019, the R.S.S. formed a media unit in Mumbai, ostensibly to liaise not just with the film industry but also with journalists, the music business, and other trades. (...) Ramesh’s work with the R.S.S. involves many meetings - often half a dozen a day, with directors, producers, writers, and studio executives around Mumbai. (...) Ramesh’s mission, he said, is to nudge filmmakers toward subjects close to the R.S.S.’s heart. He wouldn’t care for a drama about conflict between Hindu castes, for instance: “Look at the great history of this country - and what do we show? We show all bad things.” But conflict in itself is not a problem. He often suggests tales of India’s military and intelligence agencies, or stories about the battles won by Hindu kings. (...)
Happy endings are relative, though. If a film conforms to the R.S.S.’s vision of India, Ramesh excuses any manipulations of fact; if it departs from that vision, Ramesh believes that its creators seek to “tarnish” India’s image. He cited “The Empire,” a show on Disney’s Indian platform, about Babur, the Muslim warrior who founded the Mughal dynasty in India, in 1526. Why make a show that humanizes Babur, Ramesh wondered. He doesn’t consider Muslim rulers to be Indian, even if they were born in the country. “They were invaders,” he said. “Sacred Games,” a noirish Netflix series, depicted a Hindu man plotting an act of terrorism. Ramesh thought that it was propaganda: “You want to show Hindus as terrorists because you don’t want to acknowledge Islamic terrorism.” “Tandav”? Also propaganda. But he forgives directors who invert history, depicting Hindu kings defeating their Muslim foes in battles that they actually lost. “You have to show something that will inspire people,” he said. And when I asked him about “The Kashmir Files” (...) he claimed unflappably that it was all fact. “You should know the history,” he said. (...) If Amazon feels daunted by the lawsuits against “Tandav” - if it feels compelled to make shows and movies for Hindu partisans - that doesn’t worry Ramesh: “They must be happy that we do court cases. We don’t go and destroy their buildings.” His own efforts to set Bollywood right were minor, but they represented the importance that the R.S.S. vests in cinema. “We recognize that this is the most powerful medium, which controls minds, which influences the opinions of people,” he said. “A film is a mirror of society,” he went on - a tired, tedious idea, although it struck me that the Hindu right, to obtain the precise reflection it wants, is recasting not just society but also the mirror itself. (...)


“In many ways Bollywood, in its beginning, was one of the most cosmopolitan employers,” Debashree Mukherjee, a scholar of South Asian cinema at Columbia University, told me. In part, this was a political alignment with freedom fighters like Mahatma Gandhi and Jawaharlal Nehru, who wanted India to be a plural country. But it was also born out of necessity, Mukherjee said, because the movie industry was created as a patchwork of many other trades. “Some of the earliest financing came from Gujarati Muslims, and some of the earliest writers were from the Parsi theatre scene,” she said. Lyricists wrote songs in Urdu, a language inflected with Arabic and Persian and fostered by Muslim nobles as a medium of high culture. On a set, the dress dada might be a Hindu tailor and the art dada a Muslim painter. “The workforce was diverse, which remains the case today,” Mukherjee said.
Onscreen, Indian Muslims tended to be typecast, but in mainstream Bollywood this wasn’t so unusual: every character tended to be typecast. When Muslims led the story, they often figured as Mughal nobles, as courtesans. (...) The stock of secondary roles included the benevolent Muslim elder (...), the soulful poet or composer, and the best friend.
The Muslim type appeared even in “Amar Akbar Anthony” (1977), a landmark film that enshrined the ideal of religious tolerance. “Amar Akbar Anthony” is unabashed Bollywood - long and exuberant, with a baroque plot and half a dozen musical numbers. Three brothers, separated in childhood, are adopted into different faiths, and grow up to be the film’s dashing heroes, each neatly falling in love with a woman from his own religion. The movie’s conclusion is never in doubt. Its energy springs instead from the question of how its various ends are obtained: how the brothers realize that they’re brothers, how they find their long-lost parents, how they win their women, how they defeat a crime lord who has tried to destroy their family. The film ends in a joyful, syncretic reunion - the Nehruvian nation transposed onto the family in the clearest possible fashion. In this idyll, Akbar, the Muslim brother, could have clerked in a bank or run a magazine; instead, he sings Urdu qawwalis. (...)
“It’s only in the late nineteen-eighties, and really with greater and greater frequency in the nineteen-nineties, that mainstream films start showing Muslims as gangsters, smugglers, and then terrorists,” [film scholar Ira] Bhaskar said. Not by coincidence, she pointed out, these were also the decades when the B.J.P. grew as an electoral force. In 1992, after calling for the destruction of a mosque in the temple town of Ayodhya, B.J.P. and R.S.S. leaders watched as their followers tore the building down in a matter of hours. The demolition ignited riots, ushering India toward its present condition of chronic, quivering polarization. In 2010, Bhaskar met the director Yash Chopra, who had made many staunchly secular movies between the sixties and the eighties. “We couldn’t make those kinds of films today,” he told her. The plural ideal had withered too much. “Back then, we had faith in it.” (...)


In 2017, [Dibakar] Banerjee felt an itch. He’d been reading with horror about the lynchings of Muslims and about the murder of a journalist named Gauri Lankesh, all at the hands of Hindu extremists. This was, he said, “a special eruption of the poison” - and yet much of the country seemed not to sense its dreadful import. “The middle class was aware only of a daily, ubiquitous ‘othering’ of people in our lives,” he said. “I really wanted to make a film about it.” The following year, Banerjee signed a contract with Netflix, for a movie tentatively called “Freedom,” and shot the bulk of it in the course of thirty-six days at the beginning of 2020, largely in Mumbai. “We had another five days of exterior sequences left, but that didn’t happen, because the Indian lockdown started,” he said.
Earlier this year, Banerjee sent me a Vimeo link to his finished film, which confronts the bigotry infecting India. Banerjee approaches his theme slowly and sideways, through the story of one Muslim family. The family’s first generation, living in Kashmir during the unrest in 1990, finds itself sundered from its Hindu friends. In the second generation, a young woman wants to buy an apartment in present-day Mumbai, but no one will sell to her. (Muslims in Indian cities commonly struggle to find places to live, a form of discrimination practiced by Hindu homeowners and residents’ societies.) In 2042, the woman’s son, a novelist, lives in an even more ghettoized Delhi - a geofenced city where the state machinery determines what people can do based on their social-credit score. The wretchedness of this future spills out of the movie; later, I seemed to remember every frame as being gloomy and grim, even though several scenes are brightly lit. “We’ve lived through enough history to understand what’s going on now,” Banerjee said. “Now we can extrapolate, which is what my film does.”


During the years that Banerjee wrote and shot his movie, the takeover of Bollywood quickened. By 2019 - an election year - new power brokers had emerged in the industry, seemingly from nowhere. One of them, the son of a legislator allied with the B.J.P., directed “The Accidental Prime Minister”, which pilloried the Congress leader who had governed India before Modi. (“It felt like propaganda even as I was making it,” Arjun Mathur, one of the film’s actors, told me. “I really regret doing it.”) Another produced a fawning bio-pic of Modi. One director told me about Mahaveer Jain, a producer who “was a nobody” but who now partners with some of Bollywood’s biggest studios and filmmakers. Jain, who said that he couldn’t meet me because he was unwell, is often described as the B.J.P.’s chief Bollywood liaison. In January, 2019, he helped choreograph a meeting between Modi and a band of A-listers, which yielded a selfie that blazed through the Indian Internet. Conspicuously, not one person in the photo was Muslim.
Sometimes there are more deliberate flexes of muscle. In the summer of 2020, under the pretext of probing an actor’s suicide, federal authorities launched an investigation into the drug habits of some of Mumbai’s most famous stars. Among them was Karan Johar. (...) Kshitij Prasad, a young executive producer who was then with Johar’s company, was called in for questioning, and he later said that the officers seemed keen to pin something - anything - on Johar or on another celebrity. “They kept insisting I was supplying drugs to the industry,” Prasad said. (The investigating agency has denied Prasad’s version of events.) When Prasad refused to cooperate, he was sent to prison for ninety days, then released on bail. The threat of a tax raid has also become a weapon, one director told me. When he was raided himself, investigators noticed that he’d been donating small monthly sums to news sites like Scroll and the Wire, which often criticize the government. “They said, ‘Don’t contribute to any of these publications,’ ” he said. “So I had to stop.”
Even these events, though, were reduced to mere prologue last October, when drug inspectors arrested Aryan Khan, the twenty-three-year-old son of Shah Rukh Khan. A team of agents, under the orders of the same officer who’d imprisoned Prasad, stopped Aryan in a Mumbai port terminal, where he was preparing to attend a party aboard a cruise ship. The agents found no drugs on him, yet they held him in jail for nearly a month before allowing him bail. Earlier this summer, they dropped all charges against him - which made it impossible not to speculate about what had happened. Had a government agency really imprisoned Aryan Khan without proof, as pure intimidation? Shah Rukh Khan said little during those weeks. The rest of Bollywood, meanwhile, absorbed the news as the most cautionary tale of all: if they could do this to the king, imagine what they could do to us.


By mid-2021, after a series of lockdowns, Banerjee had finished postproduction on his generational drama. Like a punctilious gardener, he’d offered to trim some of the movie’s nettles himself, unwilling to have Netflix stung more than necessary. (According to an internal memo, these changes included cutting images of the Indian flag. The memo also suggested, “In one of the shots, one person is walking in the background during National Anthem - remove that person.”) Toward the end of 2021, after Banerjee showed Netflix the film, something shifted. “There’d been a discussion about releasing the film in late 2022,” he said. “But an executive told us that they couldn’t commit to a release plan.” (Netflix denied this characterization.) The government had issued new guidelines for streaming platforms, obliging them, for instance, to pull a show or a movie within thirty-six hours if a court or a state agency ordered it. As Netflix kept dithering, Banerjee felt that he had just a few options left. “Wait indefinitely for the release to happen, or look for a producer who has the interest to release it in India - for the audience that I meant it primarily for - or look for a producer who doesn’t release it in India but releases it everywhere else,” he said. That last possibility was “very, very horrible - but what choice do I have?”
Banerjee’s film joins a growing trove of content that studios and filmmakers are reluctant to air. One director told me that he’d shot a love story about a couple who run away from home to be together. No one wants to release the film, he said, because “it just so happens that the boy is Muslim and the girl is Hindu.” According to two sources, a miniseries based on “Maximum City”, the popular nonfiction book that recounts Mumbai’s religious riots in 1992, has been frozen. (The production company denied this.) “Takht”, a Karan Johar extravaganza set in the Mughal period, began gestating around 2018. Two people who worked on the film described it as a celebration of secular values - which, they suspect, is partly why it’s effectively comatose. (Last year, Johar denied that he has abandoned the project.) (...) In a conversation with a former Netflix employee, I asked why Banerjee’s film had suddenly stalled. “There’s a huge sense of fear,” the employee admitted. “No one wants to take the political risk of releasing a project like that.”

In contrast, Bollywood is glutted with movies and TV shows that align with the B.J.P.’s politics. (...) Two vocal Modi supporters, the actors Kangana Ranaut and Anupam Kher, are collaborating on a film about the Congress leader Indira Gandhi and her two-year suspension of democracy, between 1975 and 1977. One director showed me a four-minute video that he’d received on WhatsApp - a teaser for a production about a Congress corruption scandal in the eighties. The clip interleaved old news footage and fresh footage so deftly, the director said, “that you feel like they don’t have an agenda. Then you read the names of the people involved.” At the end of the video, a logo popped up: Anupam Kher Studios. (...)
The first week I was in Mumbai turned out to be a representative one, as far as Bollywood releases were concerned. One new movie, “Major,” was about the life of an Indian Army officer who died trying to rescue hostages from the Taj Mahal Palace hotel, in Mumbai, after Pakistani terrorists seized the building, in 2008. Another film, “Samrat Prithviraj,” sang the glories of a twelfth-century Hindu ruler, Prithviraj Chauhan, who was killed after a battle against Muhammad Ghori, a king venturing eastward from present-day Afghanistan. “Samrat” - or “Emperor” - had been affixed to the title at the eleventh hour, after members of Chauhan’s caste protested that calling the film “Prithviraj” was insufficiently reverential. This was the same group that had vandalized the set of “Padmaavat”; it was perhaps easier to just give in.

I watched “Samrat Prithviraj” on the morning of its release. (...) In the lead role was Akshay Kumar, an aging action star with a face as lean as a greyhound’s. Kumar’s Prithviraj is a self-righteous bore, forever harping on about Hindu tradition and the need for Hindus to stick together. (The film’s obviousness won it tax exemptions in several states ruled by the B.J.P.) His sandstone palace is bathed in a golden light - the perfect venue for his wedding to an ingénue of a princess. But Prithviraj can spare little time, and just a couple of song-and-dance sequences, for love. Most of the film is taken up either by his councils with advisers about battles or by the battles themselves. In the climax, Prithviraj dies - but not before he rewrites history by killing Ghori. (Lions in a coliseum are involved.) The film’s epilogue calls Prithviraj the “last Hindu ruler in north India” (a falsehood) and laments that, after his death, India recovered its honor only when it gained independence from the British, in 1947 - thus conflating homegrown Muslim rulers with European colonists in a sweep of rhetoric.
When the lights came up, there were barely a dozen people left in the theatre, down from the twenty or so at the beginning. In the weeks that followed, “Samrat Prithviraj” proved to be a box-office dud. It’s the sort of fact that some filmmakers cited to me in hopeful tones, as if to say that the Hindu-nationalist playbook doesn’t guarantee a hit - that the whims of the audience will ultimately thwart any ideological conquest of Bollywood. But this idea ignores the sheer volume of oxygen taken up by films like “Samrat Prithviraj,” and their accretive psychic weight. And it overlooks the movies that aren’t being made, the stories that aren’t being told, the things that aren’t being said. “The worrying aspect,” Mohammed Zeeshan Ayyub told me, “is that, out of fear, you draw back and you draw back and you draw back, until you step on the very people you ought to be defending”.'

Una sintesi in italiano di questo articolo è stata pubblicata da Il Post il 15 ottobre 2022: Bollywood è sempre più di destra.

SONIA FALEIRO: LE BRAVE RAGAZZE


La scrittrice indiana Sonia Faleiro è in questi giorni in Italia per presentare il suo saggio, Le brave ragazze, pubblicato da Neri Pozza Editore. Il volume, frutto di un'indagine di stampo giornalistico, tenta di far luce su un macabro caso di cronaca nera avvenuto in India nel 2014: due ragazzine furono trovate impiccate ad un albero. Vi ricordo che l'ottimo film Article 15 si ispira allo stesso tragico evento.
Il 22 ottobre 2022 Sonia ha partecipato alla manifestazione L'Eredità delle donne, a Firenze (video ufficiale). Vi segnalo inoltre l'intervista concessa dalla scrittrice a Sabrina Carollo, pubblicata da Il Tirreno sempre il 22 ottobre: Brave ragazze senza giustizia. «La povertà rende vulnerabili». Di seguito un breve estratto:

'Perché ha scelto proprio questa storia?
Sono venuta a conoscenza del delitto da Twitter, dove era stata postata una foto delle due ragazzine impiccate. (...) È stato straziante, ho provato molta rabbia. Allo stesso tempo da un punto di vista antropologico sentivo il bisogno di capire cosa fosse successo. Appena raggiunto il villaggio mi sono accorta che qualcosa nella versione ufficiale non tornava. Così ho cominciato a indagare. (...) Mi ci sono voluti quattro anni, (...) ho intervistato più di cento persone, (...) insomma è stata un’autentica indagine giornalistica vecchia scuola, con molte ipotesi, molte domande. (...)
Perché è così difficile arrivare alla verità?
Le persone hanno paura di essere fraintese, giudicate. Hanno paura che la loro sopravvivenza sia messa in pericolo. Molti di noi poi non sono abbastanza forti (...) per guardare in faccia la verità. I familiari di Padma e Lalli stavano cercando di proteggere le altre ragazze della famiglia. Sapevano che per loro se fosse stato reso noto che una delle due ragazzine stava intrattenendo rapporti prematrimoniali, la cosa avrebbe creato problemi a tutte le altre bambine. Adoravano le loro figlie, ma hanno dovuto essere pragmatici. Quando la sopravvivenza non è garantita, devi affrontare questi dilemmi ogni singolo giorno, facendo scelte che altre persone giudicherebbero duramente'. 

Sonia Faleiro

Aggiornamento del 15 dicembre 2022: vi segnalo l'intervista concessa dalla scrittrice a Carlo Pizzati, in occasione della presentazione di Le brave ragazze a Firenze, e pubblicata ieri da La Repubblica. Sonia Faleiro: "Essere donne in India è sperimentare la violenza":

'Questo libro fa riflettere su mezze verità e fake news. Crede ancora che la cronaca possa apportare un cambiamento nella società?
Anni fa scrissi Beautiful Thing, libro ispirato alla chiusura dei dance bar di Bombay. Ero furiosa dell'impatto che una legge arbitraria aveva su migliaia di donne. Vedevo quanto rapidamente le notizie svanivano dall'immaginario nazionale. Avrei scritto un resoconto di quell'epoca. Quando poi un tribunale citò il libro tra le motivazioni per cui il bando ai dance bar fu annullato, fu solo un bonus per me. Il mio mestiere è di fare il resoconto di un'epoca e di persone trattate brutalmente dal loro Stato. Poi se ciò innesca un cambiamento, ottimo.
Le statistiche dicono che in India sesso e violenza vanno spesso assieme. Perché?
In India, uno stupro non è mai solo uno stupro. C'è la violenza sessuale, ma poi infilano un pezzo di vetro nella vagina della vittima, oppure le tagliano la lingua, le danno fuoco. Non è solo sesso. Quel gesto di crudele violenza non è mai sufficiente. Dev'essere sempre qualcosa di più. Abbiamo questa illimitata capacità per la brutalità perché non siamo mai riusciti a concedere a noi stessi il semplice lusso delle compulsioni. Ciò che contribuisce alla violenza sessuale è la riservatezza che ammanta il sesso, covata in un senso di vergogna che avvolge l'idea di amore. Non devi innamorarti. Non devi voler essere con qualcuno. Siamo così opposti culturalmente all'idea del desiderio perché accogliere l'idea di desiderio vorrebbe dire essere in controllo del nostro destino, capisce? Ma se puoi essere in controllo del tuo destino cosa significa per la famiglia, la comunità e la società? E l'India è una società che storicamente ha insito un forte sistema di sorveglianza.
Nella famiglia stessa...
Nella famiglia, nel quartiere, nella società che guarda sempre a quello che fanno gli altri, giudicandoli, alienandoli. Ecco perché l'onore diventa una questione di vita o di morte. Questa resistenza al desiderio esiste perché una persona che può assecondare il proprio desiderio viene considerata come in grado di far prendere alla propria vita la direzione che l'individuo sceglie. Ma la società indiana è contraria al concetto di un individuo in controllo della propria vita: è tutto focalizzato su famiglia e comunità. Ecco perché abbiamo i matrimoni combinati. Tanta frustrazione nasce dal fatto che qualcosa di così normale come il desiderio e l'amore, incontrollabili, devono essere controllati. Ciò genera frustrazioni e aggressioni e infine atti di violenza brutali.
Qual è il ruolo dell'onore in questo contesto? Sembra che in India, più sei povero, più sei ossessionato dall'onore.
Perché, appunto, non hai controllo di nulla nella vita. Se sei di casta bassa, povero, sempre preso a calci, a volte letteralmente, da gente che sta meglio di te, ti senti impotente. Cosa puoi controllare della tua vita? Il tuo onore, giusto? Puoi controllare le donne e i bambini nella tua famiglia, usando violenza fisica e mentale. Ma chi vive in India sa che l'onore è molto importante anche per la classe media e per quella alta, ugualmente ossessionati dall'idea di far sposare i figli con le "persone giuste". Alla base della società le implicazioni di questo meccanismo vanno fuori controllo, generando suicidi e omicidi, ma non è detto che l'onore sia solo l'ossessione dei poveri.
Lei dimostra che il killer numero uno non è un misterioso assalitore frustrato nascosto nel buio, ma è dentro la famiglia. In Italia, ad esempio, gli omicidi in famiglia fanno più vittime di tutto il crimine organizzato. Perché è così difficile affrontare questa realtà?
La distanza tra amore e odio, amore e rabbia, amore e frustrazione non è molta. L'amore, per i personaggi del mio libro, è centrale. Le figlie erano adorate dai genitori. I genitori hanno giustificato ciò che hanno fatto con l'idea di proteggerle. Si commettono molti gesti sbagliati in nome dell'amore. E bisogna capire che anche se si ama qualcuno non è escluso che gli si possa fare molto male in nome di quell'amore. Ma l'amore non è l'unica emozione che influenza le relazioni. In India, la sopravvivenza è una preoccupazione centrale, e la sopravvivenza è strettamente collegata all'onore. Si tratta di onore, sopravvivenza e amore. Ma la sopravvivenza avrà la meglio su tutto.
Sembra tutto collegato: perdere la reputazione può significare perdere il lavoro e la possibilità di trovarne un altro, facendo collassare l'intera famiglia. Meglio quindi uccidere l'elemento che può causare questo disastro, salvando il resto della famiglia. Per un errore causato dal desiderio, un'intera famiglia potrebbe morire di fame perché la perdita dell'onore può mettere a repentaglio la sopravvivenza. È questo il meccanismo che si innesca nella mentalità dell'assassino: il sacrificio di una persona amata serve a salvare il resto dei familiari?
Sì, è come una pianta con una foglia secca che rischia di far rinsecchire il resto della pianta. Meglio tagliare la foglia. È un sacrificio rituale, complicato dall'amore e dall'astuzia che subentra su come eliminare l'individuo in questione. Far passare un omicidio per un incidente in cucina o per un suicidio riduce le possibilità di ampliare l'inchiesta e le indagini sulle vere cause. Nel mio caso non ha funzionato.'

23 ottobre 2022

SHEHAN KARUNATILAKA VINCE IL BOOKER PRIZE 2022


Lunedì scorso, a Londra, è stato conferito il Booker Prize 2022 allo scrittore srilankese Shehan Karunatilaka per il romanzo The Seven Moons of Maali Almeida. In Italia dovrebbe essere pubblicato nel 2023 da Fazi Editore. Nel sito ufficiale, si legge: 
'What the judges particularly admired and enjoyed in The Seven Moons of Maali Almeida was the ambition of its scope, and the hilarious audacity of its narrative techniques. This is a metaphysical thriller, an afterlife noir that dissolves the boundaries not just of different genres, but of life and death, body and spirit, east and west. It is an entirely serious philosophical romp that takes the reader to ’the world’s dark heart’ - the murderous horrors of civil war Sri Lanka. And once there, the reader also discovers the tenderness and beauty, the love and loyalty, and the pursuit of an ideal that justify every human life. (...) The voice of the novel - a first-person narrative rendered, with an astonishingly light touch, in the second person - is unforgettable: beguiling, unsentimental, by turns tender and angry and always unsparingly droll. The exhilarating energy with which we’re plunged into a rich and darkly comic world. This is Sri Lankan history as whodunnit, thriller, and existential fable teeming with the bolshiest of spirits. ‘You have one response for those who believe Colombo to be overcrowded: wait till you see it with ghosts.’ Maali himself is the heart and (literally) soul of the book, and he’s wonderful company, cheerfully unapologetic about what others might see as his failings, and uncowed - even by his own sudden death - in his commitment to his violently chaotic country and to Jaki and DD, the loves of his complicated life. There’s relevance in every one of Seven Moons’ many layers. It’s not just that Sri Lanka’s present is almost as complex - if thankfully not as violent - as its past. This is also a deeply humane novel about how to live in intolerable circumstances, about whether change is possible, and how to set about coping if it’s not.'





Aggiornamento del 6 giugno 2023: Le sette lune di Maali Almeida è da oggi in distribuzione nelle librerie italiane. Nel comunicato ufficiale si legge: 
'L’incredibile storia di Maali Almeida si apre in circostanze a dir poco inconsuete: il giovane Maali, fotografo di guerra, giocatore d’azzardo e gay clandestino, si è appena svegliato in quello che sembra un ufficio visti celestiale. È morto, il suo corpo sta affondando nelle acque quiete del lago Beira e lui non ha idea di come ci sia finito. Siamo nel 1990, Colombo è «una città puzzolente dove le azioni rimangono impunite e i fantasmi camminano non visti» e lo Sri Lanka un paese in cui l’elenco dei sospetti è tristemente lungo e a regolare i conti sono squadroni della morte, attentatori suicidi e sicari. Nemmeno nell’aldilà, però, si può stare troppo tranquilli. Il tempo, per Maali, scorre veloce: ha a disposizione soltanto sette lune - sette notti - per contattare l’uomo e la donna che più ama e condurli alla sua scatola segreta di fotografie, una collezione di immagini altamente compromettenti che potrebbero sconvolgere lo Sri Lanka. Deve assicurarsi che non vadano perdute. Disturbato da ostacoli di ogni sorta, cerca di portare a termine la complicata missione e, nel frattempo, si sforza di rimettere ordine nei ricordi per risolvere l’enigma che lo assilla: chi l’ha ucciso? Il commovente racconto di un amore proibito, l’avvincente indagine su un omicidio misterioso, l’appassionante epopea di un paese in crisi: Le sette lune di Maali Almeida, che ha vinto il prestigioso Booker Prize proiettando l’autore nell’olimpo della letteratura mondiale, contiene tutto questo e molto di più. Shehan Karunatilaka ha dato vita a un romanzo esuberante, narrato da una voce unica, intriso di un umorismo irresistibile e impreziosito da uno stile travolgente'.
Vi segnalo anche la Guida alla lettura.